Firenze, 1 dicembre 2017 – La cosiddetta vitamina D è in realtà un ormone prodotto dalla pelle in seguito all’esposizione al sole e, a differenza delle altre vitamine, l’apporto derivante dall’alimentazione è trascurabile. Il ruolo svolto da questa vitamina è fondamentale per il mantenimento della salute dello scheletro, perché il suo compito è quello di favorire l’assorbimento del calcio da parte di intestino e reni: calcio che il nostro organismo utilizzerà principalmente per la costruzione e il mantenimento in buona salute delle ossa.
Ecco perché un livello ottimale di vitamina D è funzionale al mantenimento della salute delle ossa, e perché le organizzazioni che si occupano della promozione della salute dello scheletro e della lotta all’osteoporosi raccomandano supplementi calibrati di questa vitamina agli individui ad alto rischio di frattura di fragilità che ne presentino livelli troppo bassi.
Negli ultimi tempi però si vanno sempre più diffondendo dati relativi a possibili effetti positivi legati alla supplementazione di vitamina D anche relativamente ad altre patologie croniche, di ambito extrascheletrico. Per questo motivo i rappresentanti della massima società europea che si occupa di studi clinici su osteoporosi e osteoartrite (ESCEO) insieme a FIRMO (Fondazione Italiana Ricerca sulle Malattie dell’Osso) hanno composto un gruppo di studio che ha intrapreso una revisione sistematica delle evidenze relative agli effetti positivi della vitamina D in ambito di malattie croniche extrascheletriche, con l’obiettivo di fornire linee guida per studi futuri nel settore. Il risultato di questo lavoro è stato pubblicato sulla rivista “Endocrine” nel maggio 2017.
Abbiamo chiesto alla prof.ssa Maria Luisa Brandi, Segretaria Generale di ESCEO, Professore Ordinario di Endocrinologia dell’Università di Firenze e Presidente di FIRMO, quali sono stati i risultati dello studio: “Si sa, la possibilità di trovare una panacea per tutti i mali è una suggestione fortissima, ma il nostro compito, come scienziati, è quello di verificare se è come le speranze riposte in una cura siano documentabili o meno. Le conclusioni dell’analisi compiuta ci hanno chiaramente dimostrato che, al momento, le sperimentazioni cliniche disponibili hanno mostrato risultati ancora insufficienti. Mancano ancora test necessariamente ampi e circostanziati, tali da poterci confermare la reale efficacia di tali supplementi sulle malattie croniche extrascheletriche. Inoltre anche il dosaggio usato per queste malattie, ben superiore a quello normalmente somministrato per la salute dello scheletro, deve ancora dare prova della sua innocuità. Anche gli studi, finora promettenti, relativi ad effetti sulle malattie autoimmuni (compresi il diabete di tipo 1, la sclerosi multipla e il lupus eritematoso sistemico), i disturbi cardiovascolari e la riduzione complessiva della mortalità, devono essere confermati. Un punto critico è rappresentato dalla mancanza di conoscenza dei dosaggi necessari per la prevenzione di malattie croniche, a parte la fragilità ossea, visto che quanto raccomandiamo si basa sulle conoscenze accumulate per il metabolismo osseo e la prevenzione delle fratture. Pare infatti che per prevenire malattie croniche che oggi si affacciano all’orizzonte occorrerebbero dosaggi molto più alti, con potenziali effetti indesiderati a lungo termine. Questo non significa voler smentire la possibile efficacia del supplemento di vitamina D anche per altri ambiti di cura, ma vogliamo mettere in guardia da troppo facili entusiasmi riguardo a terapie che non hanno ancora provato né la loro efficacia, né la loro innocuità a dosaggi diversi da quelli raccomandati per contrastare le fratture da fragilità. Ad oggi, possiamo affermare con certezza che la vitamina D va somministrata a individui a rischio di carenza, con dosaggi capaci di correggere il metabolismo fosfo-calcico, sono però da evitare eccessi sia nella quantità, sia nel numero delle applicazioni che esulino da tali indicazioni d’uso di questo importantissimo ormone”.