Uno studio coordinato dal Barcelona Clinic Liver Cancer e dal Policlinico di Milano ha messo in luce gli effetti negativi della pandemia da coronavirus anche sulla diagnosi e cura dei pazienti con tumore primitivo del fegato. Al Policlinico ridisegnati i percorsi sin dalle prime settimane, per tutelare i pazienti e minimizzare i rischi da Covid
Milano, 5 febbraio 2021 – La pandemia da Covid-19, e in particolar modo la prima ondata del virus, ha stravolto moltissimi aspetti della salute: dalle diagnosi precoci, ai percorsi di cura, fino alla possibilità di proseguire i controlli in sicurezza per i pazienti cronici. Tutti aspetti che in generale hanno peggiorato l’assistenza a tanti malati a livello globale e in particolare hanno rischiato di comprometterla per chi ha un tumore del fegato: a dimostrarlo è lo studio CERO-19, ideato dal Barcelona Clinic Liver Cancer – Hospital Clinic di Barcellona e dal Policlinico di Milano, e appena presentato al summit internazionale della società europea per lo studio del fegato (EASL).
Lo studio ha coinvolto 76 centri di tutto il mondo (Europa, Nord America, Sud America, Africa e Asia) con alta specializzazione per le patologie epatiche. Analizzando l’assistenza ai pazienti oncologici nel periodo marzo-giugno 2020, che ha coinciso con la prima ondata del coronavirus, gli esperti hanno visto che “l’87% delle strutture ha dovuto modificare la gestione del paziente con tumore primitivo del fegato proprio a causa della pandemia – spiega Massimo Iavarone, epatologo dell’Unità di Gastroenterologia ed Epatologia del Policlinico di Milano e coordinatore italiano dello studio – Questo ha portato a rallentare le procedure di screening per il tumore, e persino le procedure di diagnosi, stadiazione e valutazione della risposta al trattamento. Alcune di queste modifiche potranno portare a ritardi di diagnosi e cura del cancro, potenzialmente riducendo l’accesso a terapie efficaci e quindi modificando la prognosi dei pazienti”.
Lo studio CERO-19 si componeva di due parti: la prima ha puntato a comprendere l’impatto della pandemia sulla gestione dei pazienti affetti da tumore primitivo del fegato, mentre la seconda ha raccolto le informazioni relative ai malati, per valutare l’impatto della pandemia sulla loro sopravvivenza nel tempo. I tumori del fegato hanno un impatto importante a livello mondiale: le stime parlano di 800 mila nuove diagnosi e di almeno 700 mila morti causate da questa patologia ogni anno.
La consapevolezza dell’impatto che Covid-19 avrebbe provocato nella gestione dei pazienti oncologici ha però portato la Gastroenterologia ed Epatologia del Policlinico di Milano, diretta da Pietro Lampertico, “a mettere in atto sin dalle prime settimane della pandemia una nuova organizzazione per tutelare i nostri pazienti dal rischio di contrarre l’infezione, riuscendo allo stesso tempo a garantire la continuità delle cure per il tumore. Il tutto in collaborazione con gli altri specialisti del Policlinico coinvolti nella gestione multidisciplinare del tumore primitivo del fegato”, come l’Unità di Chirurgia Generale e Trapianti di Fegato diretta da Giorgio Rossi e l’Unità di Radiologia diretta da Gianpaolo Carrafiello.
“Forti di una nostra precedente ricerca scientifica in cui dimostravamo l’elevata mortalità dei pazienti con cirrosi con infezione da SARS-CoV-2, abbiamo messo in atto da subito una sorveglianza attiva sia sul personale sanitario coinvolto nella gestione dei malati sia su tutti i pazienti ricoverati, per identificare potenziali soggetti asintomatici, riducendo il rischio di infezione ospedaliera. L’attività di trattamento del tumore si è ridotta solo nelle prime settimane della pandemia, così come l’attività ambulatoriale e di diagnostica radiologica, per essere ripristinate subito dopo. Le riunioni multidisciplinari, che abbiamo continuato ad effettuare in modo virtuale – conclude Iavarone – hanno permesso di scegliere il miglior trattamento per il paziente, tenendo in considerazione anche aspetti gestionali come la diminuzione dell’attività operatoria causata dal virus o scegliendo il trattamento che, a parità di efficacia, riducesse l’esposizione all’ambiente ospedaliero per i pazienti”.