Bologna, 1 dicembre 2022 – Migliori aspettative di vita e forte riduzione dei sintomi dolorosi: sono i risultati emersi dagli studi dell’IRCCS Policlinico di Sant’Orsola, pubblicati su Cancers nel 2019 e 2020, sull’applicazione dell’elettrochemioterapia come trattamento palliativo dei tumori vulvari in stadio avanzato e/o recidivi. Risultati che hanno portato oggi all’inserimento della terapia all’interno delle linee guida per il trattamento del tumore alla vulva della società europea di ginecologia oncologica (European Society of Ginecological Oncology – ESGO).
Tutto grazie alle sperimentazioni guidate dalla dott.ssa Anna Myriam Perrone e effettuate all’IRCCS dalla struttura di ginecologia oncologica diretta dal professore Pierandrea De Iaco in collaborazione con la radioterapia del professore Alessio Morganti e in particolare del dottor Andrea Galuppi. Lo studio condotto su 61 pazienti è stato pubblicato su Cancers lo scorso settembre.
Perché è così importante trattare con una cura palliativa le recidive di tumori vulvari?
Le recidive dei tumori alla vulva hanno un fattore di rischio per l’insorgere di metastasi. Su queste ultime il trattamento con terapie standard come la chirurgia o la radioterapia ha dei forti limiti perché non sempre applicabili. Soprattutto perché questa tipologia di tumore insorge prevalentemente in donne dai 75 anni in su, rendendo poco perseguibile la strada della chirurgia poiché molto demolitiva. Inoltre, è impossibile ripetere la radioterapia su pazienti che l’hanno già eseguita a scopo curativo. Mentre per quanto riguarda la chemioterapia, questa risulta poco efficace in questa tipologia di malattia.
In questi casi, gli studi dell’IRCCS hanno dimostrato l’efficacia e la semplicità dell’applicazione del trattamento palliativo con elettrochemioterapia, con importanti ricadute sulla qualità della vita delle pazienti. Due risultati su tutti: allungamento delle prospettive di vita rispetto alle previsioni e, soprattutto, forte riduzione della sintomatologia nelle pazienti dove la risposta alla terapia è completa o parziale.
Parliamo infatti di una malattia dolorosa e la sperimentazione prova la capacità della terapia di incidere positivamente sui sintomi riducendo le sofferenze delle pazienti. Gli studi sono iniziati nel 2013 e riguardavano un piccolo numero di pazienti. Visti gli ottimi risultati sono stati progressivamente ampliati fino all’ultima sperimentazione del 2019 che ha prodotto le pubblicazioni che hanno consentito alla terapia di essere inserita nelle linee guida internazionali.
In cosa consiste la terapia?
È una terapia eseguita in day surgery e in anestesia locale il più delle volte. Vengono somministrati a livello sistemico farmaci chemioterapici e applicati impulsi elettrici quando la concentrazione del farmaco nel corpo e quindi nel tumore è al suo picco. Questo consente un’alta concentrazione del farmaco nell’area tumorale perché gli impulsi elettrici applicati solo nella sede del tumore sottopongono le cellule ad un campo elettrico che permette la formazione di pori sulla membrana cellulare (chiamata elettroporazione) che alterano la permeabilità della membrana stessa e ne fanno concentrare il farmaco solo nell’area tumorale senza effetti tossici sistemici. Complessivamente parliamo di una procedura poco invasiva della durata massima di 45 minuti/1 ora e che non prevede nella maggior parte dei casi l’ospedalizzazione delle pazienti.
Nuova sperimentazione
Si continua ancora con la ricerca scientifica all’IRCCS Policlinico di Sant’Orsola con un nuovo protocollo prospettico randomizzato che vede sempre la dottoressa Perrone come principal Investigator, dove nel braccio sperimentale è presente anche la somministrazione di platino associata alla Bleomicina nella speranza di aumentare l’efficacia della elettrochemioterapia nei tumori vulvari. Questo studio vede coinvolta anche l’Oncologia Medica del dottor Claudio Zamagni.
Il carcinoma vulvare
Il carcinoma vulvare è una neoplasia rara, con un’incidenza del 4% su tutti i tumori ginecologici e dello 0,3% di tutti i tumori femminili. È una malattia all’inizio indolente che insorge più frequentemente in pazienti dai 75 anni in su, età in cui le pazienti fanno minori controlli ginecologici e per questo motivo è spesso misconosciuta.
Se la malattia viene diagnosticata negli stadi iniziali, la sopravvivenza è circa dell’86%, mentre quando è regionale, cioè interessa le strutture vicine come l’uretra e il retto, la sopravvivenza scende al 54% (malattia regionale), laddove quando si diffonde a distanza (malattia metastatica) cade al 16%. La terapia è molto influenzata dall’età e spesso si agisce per via chirurgica accompagnandola con la radioterapia. Nonostante questa associazione di terapie, circa nel 33% dei casi si verificano recidive che limitano le opzioni terapeutiche.