Prof. Guido Valesini, reumatologo dell’Università La Sapienza di Roma e Direttore della UOC di Reumatologia del Policlinico Umberto I di Roma: “I risultati del nostro studio suggeriscono che l’adozione di uno stile di vita associato ad una dieta a basso contenuto di sale possa contribuire a spegnere la risposta infiammatoria nei pazienti con malattie autoimmuni”
Roma, 7 settembre 2017 – L’eccessivo apporto di sale nell’alimentazione, tipico dei Paesi industrializzati, è da tempo additato come uno dei fattori di rischio delle malattie cardiovascolari. Più di recente, l’eccessivo introito salino è stato sospettato di essere una delle possibili cause dell’aumentata incidenza delle malattie autoimmuni osservata negli ultimi anni.
Due studi hanno infatti dimostrato che, in modelli animali, l’esposizione a modeste concentrazioni di sale favorisce l’insorgenza di malattie autoimmuni attraverso l’attivazione di alcune cellule, i linfociti T helper 17, dotate di elevata attività infiammatoria.
Partendo da questi presupposti, il gruppo di ricerca diretto dal prof. Guido Valesini, reumatologo dell’Università La Sapienza di Roma e Direttore della UOC di Reumatologia del Policlinico Umberto I di Roma, ha disegnato uno studio per comprendere se il sale contenuto nella dieta possa avere un effetto pro-infiammatorio nelle cellule del sistema immunitario di pazienti con artrite reumatoide e lupus eritematoso sistemico, due tra le malattie autoimmuni più frequenti.
Lo studio, appena pubblicato sulla rivista scientifica PLOS ONE, ha esaminato per la prima volta gli effetti biologici del sale nei pazienti con malattie autoimmuni, valutando sia i linfociti T helper 17 che i linfociti Treg (regolatori), che contrastano l’azione pro-infiammatoria dei T helper 17. Essendo ben noti gli effetti deleteri di un eccesso di sale, i ricercatori hanno allestito uno studio di 5 settimane modulando l’introito salino con la dieta in modo tale da sottoporre i pazienti ad una dieta a basso contenuto di sodio per le prime 3 settimane (durante le quali veniva osservata una dieta molto rigida), seguita nelle ultime 2 settimane da una normosodica, così definita secondo le indicazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che prevedono di non assumere più di 5 grammi di sale al giorno. L’obiettivo era quindi quello di capire se i due differenti regimi dietetici potessero influire sul numero dei linfociti T helper 17 e Treg.
“L’aderenza alla dieta era un prerequisito irrinunciabile per ottenere risultati credibili – spiega il prof. Valesini – Pertanto, abbiamo applicato la metodica ad oggi ritenuta più attendibile per valutare l’introito salino, cioè la misurazione dell’escrezione di sodio nelle urine raccolte nell’arco delle 24 ore. Considerando che 1 grammo di sale contiene 17 mEq di sodio, l’escrezione di sodio nelle 24 ore dovrebbe essere inferiore a 85 mEq in regime di dieta normosodica”.
Tale metodica ha consentito di identificare 14 pazienti con artrite reumatoide e 15 con lupus eritematoso sistemico che avevano aderito pienamente alla dieta: solo in questi sono stati valutati i linfociti T helper 17 e T regolatori prima dell’inizio della dieta, e poi ancora dopo 3 e 5 settimane.
I risultati ottenuti hanno confermato l’intuizione iniziale: in tutti i pazienti è stata osservata una riduzione della frequenza dei linfociti T helper 17 dopo le prime 3 settimane di dieta a basso contenuto di sale ed un successivo aumento alla fine dello studio, dopo le 2 settimane in cui si aumentava l’introito salino, seppure entro i limiti di un regime normosodico. Le cellule T regolatorie, caratterizzate da una attività anti-infiammatoria, mostravano invece un comportamento opposto: aumentavano nelle prime 3 settimane per ridursi nelle ultime 2.
È interessante rilevare che, al termine delle 5 settimane dello studio, è stata osservata anche una riduzione, rispetto al basale, dei livelli di alcune molecole note per la capacità di amplificare la risposta infiammatoria nei pazienti con malattie autoimmuni.
“I risultati del nostro studio – sottolinea il prof. Valesini – suggeriscono che l’adozione di uno stile di vita associato ad una dieta a basso contenuto di sale possa contribuire a spegnere la risposta infiammatoria nei pazienti con malattie autoimmuni”.
L’eccesso di sale si configura quindi come un fattore di rischio modificabile nella gestione delle malattie autoimmuni. “E’ allarmante – conclude il prof. Valesini – che i livelli relativi all’escrezione di sodio con le urine riscontrati prima dell’inizio dei due regimi dietetici fossero di gran lunga superiori al limite di 85 mEq”.
Una riflessione che si traduce in un monito a modificare lo stile di vita ed in particolare la condotta alimentare.