I risultati di uno studio sulla rivista Nature Medicine, condotto presso l’Università Cattolica, campus di Roma, e l’Università di Trento fanno breccia sulle modalità migliori di eseguire il trapianto. L’intelligenza artificiale può aiutare a selezionare il donatore adatto
Roma/Trento, 16 settembre 2022 – Dalle infezioni intestinali non curabili con gli antibiotici, alla sindrome metabolica, dal melanoma, alle malattie infiammatorie croniche intestinali, alla sindrome dell’intestino irritabile, fino alla sindrome di Tourette: queste e molte altre sono le malattie su cui è stato studiato il trapianto di microbiota (Fecal Microbiota Transplantation – FMT). Ricercatori dell’Università Cattolica, campus di Roma e dell’Università degli Studi di Trento hanno dimostrato che maggiore è il livello di attecchimento dei microrganismi trapiantati, maggiori sono le chance di successo della terapia.
È questo il cuore dello studio pubblicato sulla rivista Nature Medicine coordinato dal dott. Gianluca Ianiro, Ricercatore in malattie dell’Apparato Digerente all’Università Cattolica e dirigente medico della UOC di Gastroenterologia della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli” IRCCS e dal prof. Nicola Segata, Ordinario di Genetica all’Università di Trento e nel Dipartimento Cibio dell’ateneo di Trento e dell’Istituto Europeo di Oncologia di Milano.
“Il trapianto di microbiota – spiega il prof. Antonio Gasbarrini, Ordinario di Medicina Interna all’Università Cattolica e Direttore del Dipartimento di Scienze Mediche e Chirurgiche e delle Unità Operative Medicina Interna e Gastroenterologia e del CEMAD-Centro Malattie Digestive della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS – è una nuova frontiera terapeutica che abbraccia diversi settori della medicina, non solo la gastroenterologia, ma anche addirittura, ad esempio l’oncologia, (si è visto che l’efficacia di alcune terapie oncologiche è influenzata dal microbiota)”.
“In particolare – sottolinea Gasbarrini – si è ormai fatta strada l’idea che il microbiota intestinale – l’insieme dei microrganismi che vivono in simbiosi nel nostro intestino svolgendo tantissime funzioni oltre a quella digerente – sia importante per la salute umana e abbia un ruolo importante sia per il tratto digerente, sia per il sistema immunitario, sia addirittura (attraverso il collegamento intestino-cervello operato dal nervo vago) per il sistema nervoso, con possibili riflessi su patologie complesse come sclerosi multipla e autismo”.
Il trapianto si effettua isolando e purificando il microbiota del donatore raccolto dalle feci e trasferendolo con varie modalità (in capsule o durante una colonscopia) al paziente donatore. La grossa incognita di questa procedura terapeutica è proprio il livello di attecchimento dei microrganismi trapiantati nell’intestino del paziente ricevente.
Gli esperti hanno analizzato con sofisticatissime tecniche di sequenziamento genomico e di analisi informatiche un totale di più di 1300 campioni di microbiota intestinale (raccolti con le feci) di donatori e pazienti riceventi con ben otto diverse malattie (C. difficile, infezioni da batteri intestinali multiresistenti agli antibiotici, sindrome metabolica, melanoma, malattie infiammatorie croniche intestinali, sindrome dell’intestino irritabile, diarrea da chemioterapici, sindrome di Tourette).
“Grazie a nuove tecniche di analisi che abbiamo sviluppato e che sono basate sulle tecniche di sequenziamento metagenomico – spiega Segata – siamo riusciti a identificare i diversi ceppi batterici presenti nel microbiota, che sono molto specifici per ciascuna persona, e capire se un particolare ceppo è stato trasmesso dal donatore al ricevente”.
“Abbiamo visto – spiega Ianiro – che pazienti con maggior livello di attecchimento del microbiota hanno ottenuto una miglior risposta clinica; inoltre che l’attecchimento è maggiore nei pazienti con malattie infettive (che hanno uno squilibrio del microbiota – disbiosi – più “semplice” e più facilmente ripristinabile) rispetto a quelli con patologie croniche (che hanno disbiosi più complessa e inveterata)”.
“Abbiamo anche riscontrato – continua Ianiro – che i pazienti trattati con antibioticoterapia prima della procedura di trapianto hanno avuto un attecchimento maggiore e che l’infusione del microbiota tramite vie di somministrazione multiple (es. capsule insieme alla colonscopia) favorisce l’attecchimento”.
“È emerso anche – riprende Segata – che alcune specie microbiche (in particolare appartenenti ai phyla dei proteobatteri e degli attinomiceti) hanno più facilità di attecchimento rispetto ad altri”.
Infine, “abbiamo dimostrato che usando l’intelligenza artificiale possiamo predire con rilevante accuratezza la composizione del microbiota del donatore dopo il trapianto, e questo potrebbe quindi portare a identificare i donatori le cui feci riescono ad aumentare di più la varietà del microbiota (che è un parametro di salute del microbiota) post-trapianto fecale”, sottolineano Ianiro e Segata.
“Questo studio è il risultato di una proficua collaborazione e di anni di studi del nostro gruppo di ricerca sul trapianto di microbiota intestinale. È proprio grazie a questi avanzamenti di conoscenza sulle condizioni che massimizzano la riuscita del trapianto – spiega il prof. Giovanni Cammarota, Associato in Gastroenterologia all’Università Cattolica e Direttore della UOC di Gastroenterologia della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS – che riusciremo sempre di più a sfruttare la procedura nella pratica clinica per la cura di molte malattie”.
“Non a caso – conclude Ianiro – abbiamo da poco vinto un finanziamento per portare avanti, sempre col gruppo di Trento e di Milano e con la nostra unità di Oncologia Medica, uno studio randomizzato e controllato atto a valutare se il trapianto fecale riesca a migliorare la risposta terapeutica alle immunoterapie (ultima frontiera dei farmaci oncologici) in pazienti con cancro del rene in stadio avanzato”.
“Già per altri tumori, come il melanoma, vi sono iniziali e promettenti evidenze circa la connessione tra microbiota e successo dell’immunoterapia” conclude il prof. Cammarota.