Tiroide, ecco quanto incide su fertilità e gravidanza

Gli esperti del Policlinico Gemelli consigliano cosa sapere e quali controlli effettuare prima di affrontare una gravidanza

Roma, 20 febbraio 2024 – Gli ormoni tiroidei giocano un ruolo cruciale sia per la fertilità che nel consentire di portare a termine una gravidanza normale e soprattutto per il normale sviluppo del sistema nervoso del bambino. Ma le patologie della tiroide rappresentano la problematica endocrinologica in gravidanza più comune dopo il diabete. Ecco dunque cosa sapere prima di affrontare una gravidanza e quali controlli della tiroide effettuare prima del concepimento, durante la gravidanza e dopo la nascita del bambino.

Una tiroide malfunzionante in eccesso (ipertiroidismo) o in difetto (ipotiroidismo) può dare problemi di fertilità. “Se una coppia ha difficoltà a concepire dunque – spiega il prof. Alfredo Pontecorvi, direttore della UOC di Medicina Interna, Endocrinologia e Diabetologia della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS e Ordinario di Endocrinologia dell’Università Cattolica – una delle cose da controllare è proprio la funzionalità tiroidea”.

“Prima di affrontare una gravidanza, oltre agli esami di routine consigliati dal ginecologo, è importante dosare il TSH, per essere certi di affrontare la gravidanza con una tiroide che funziona correttamente, soprattutto se si è over 30 (a quest’età il 7-8% delle donne ha un ipotiroidismo subclinico) o se si ha familiarità per patologie autoimmuni o malattie tiroidee”, continua Pontecorvi. Se dagli esami, emerge un ipotiroidismo, è quindi necessario regolarizzare la funzione tiroidea, prima di affrontare la gravidanza.

Prof. Alfredo Pontecorvi

“Nel caso delle donne affette da ipertirodismo – prosegue il prof. Pontecorvi – se sono già in trattamento con farmaci tireostatici (metimazolo), nel primo trimestre è consigliabile sostituirlo con il propiltiouracile, per poi tornare al metimazolo dal secondo trimestre di gravidanza in poi. In alternativa, si potrebbe risolvere il problema dell’ipertiroidismo alla radice, prima di affrontare la gravidanza, ad esempio asportando la tiroide chirurgicamente”. Anche se la donna sviluppa ipertiroidismo in gravidanza, il farmaco di scelta nei primi tre mesi è il propiltiouracile, mentre negli ultimi due trimestri si può sostituire con il metimazolo.

In gravidanza

“Durante la gravidanza – spiega il prof. Pontecorvi – alla tiroide materna viene richiesto un superlavoro perché deve fornire gli ormoni tiroidei anche al feto, soprattutto nei primi tre mesi (il feto, infatti, comincia a produrre i suoi ormoni della tiroide solo dalla 12° settimana di gravidanza in poi); questo comporta tra l’altro un maggior fabbisogno di iodio (lo iodio serve per ‘fabbricare’ gli ormoni tiroidei), che durante la gravidanza passa da 150 a circa 250 microgrammi al giorno; il consiglio dunque è di usare sempre sale iodato, a partire già da diversi mesi prima del concepimento o di assumere supplementi se si è in carenza di iodio”.

Dott. Carlo Rota

Una tiroide sana, riesce a compensare l’aumentato fabbisogno della gravidanza aumentando di volume per produrre più ormoni. “Le donne già in terapia sostitutiva con L-tiroxina (o perché tiroidectomizzate o perché in ipotiroidismo per una tiroidite autoimmune) – spiega il dott. Carlo Rota, endocrinologo della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS – durante la gravidanza devono aumentare del 30-50% il dosaggio abituale del farmaco, per far fronte a questa maggiore richiesta di ormoni tiroidei materni”.

Questo è molto importante perché una condizione di ipotiroidismo nel primo trimestre di gravidanza, può avere serie ripercussioni sullo sviluppo neurologico del bambino e sul suo quoziente intellettivo. Ma anche nel secondo e terzo trimestre, un ipotiroidismo materno può aumentare il rischio di sofferenza fetale e di basso peso alla nascita o provocare un parto prematuro.

La tiroidite cronica autoimmune (tiroidite di Hashimoto) è la causa principale di ipotiroidismo in una donna in età fertile. “Si tratta di una condizione che si associa a un rischio aumentato di poliabortività – spiega il prof. Pontecorvi – non solo per la cattiva funzionalità della tiroide, ma anche per la presenza di un sistema immunitario iperattivo, che può determinare aborti precocissimi nelle prime settimane di gravidanza”.

Quali esami della tiroide fare in gravidanza (e quando)

“Una donna ipotiroidea che assuma terapia sostitutiva con L-tiroxina – spiega il dott. Rota – deve controllare il TSH prima della gravidanza, poi ogni 4 settimane nel primo trimestre di gravidanza, infine ogni due mesi fino a fine gravidanza; ad ogni cambio di terapia poi, gli esami vanno ripetuti a distanza due settimane”. Ma attenzione, i risultati di questi esami vanno sempre interpretati dall’endocrinologo perché i livelli di riferimento del TSH sono diversi durante la gravidanza e il range di normalità varia a seconda del trimestre.

“Alla 32° settimana – ricorda il prof. Pontecorvi – vanno dosati gli anticorpi anti-recettore del TSH che possono essere presenti nei soggetti ipertiroidei; trattandosi di immunoglobuline della classe IgG, questi possono attraversare la placenta e andare a stimolare la tiroide del feto, esponendolo al rischio di ipertiroidismo fetale/neonatale che è una condizione seria. Questi anticorpi vanno misurati anche nelle donne ipotiroidee per tiroidite cronica autoimmune, perché ne esiste una variante che può essere ‘bloccante’, cioè inibire il TSH; gli anticorpi bloccanti possono permanere nel sangue del neonato per alcuni mesi dopo la nascita e bloccare la sua tiroide che invece deve funzionare alla perfezione perché altrimenti si possono determinare importanti alterazioni dello sviluppo cerebrale e della mielinogenesi, realizzando una condizione analoga a quella dell’ipotiroidismo congenito”.

Gli ipotiroidismi neonatali da anticorpi anti-TSH bloccanti sono forme transitorie ma vanno gestiti con attenzione insieme al neonatologo. “Il dosaggio degli anticorpi anti-TSH – aggiunge il prof. Pontecorvi – è consigliabile anche per le donne che sono state trattate con radioiodio o chirurgicamente per un ipertiroidismo da malattia di Graves-Basedow, perché gli anticorpi che causano la malattia possono permanere in circolo per alcuni anni, anche dopo la rimozione della tiroide”.

Dopo la gravidanza

Prof. Antonio Lanzone

Dopo la nascita del bambino, la madre può tornare al dosaggio abituale di L-tiroxina (quello pre-parto). “È bene fare un controllo della tiroide a 6-8 settimane dal parto – spiega il dott. Rota – perché nel post-partum c’è il rischio di una recidiva di ipertiroidismo (in caso di malattia di Graves-Basedow), o del peggioramento di una tiroidite di Hashimoto o della comparsa di una tiroidite del post-partum, che può verificarsi nell’8% delle donne”.

“Quest’ultima – spiega il prof. Pontecorvi – può esordire con una fase di aumento degli ormoni tiroidei circolanti della durata di alcune settimane, che non va trattata con farmaci tireostatici, ma solo con farmaci per il controllo dei sintomi (ad esempio beta bloccanti se c’è tachicardia); dopo qualche settimana, queste forme virano in genere verso un ipotiroidismo subclinico, che può perdurare fino a 6-9 mesi, finché poi la tiroide non torna ad una funzione normale”.

Solo nel 10% dei casi la tiroidite del post-partum può cronicizzare. “Il ‘marker’ di questa condizione – spiega il dott. Rota – è la positivizzazione degli anticorpi anti-tiroidei (anticorpi anti-TPO e anti-tireoglobulina). È importante sapere che le pazienti che hanno avuto una tiroidite post-partum, la potranno ripresentare ad una successiva gravidanza. È importante non sottovalutare il problema e farsi guidare dall’endocrinologo per un’adeguata gestione, perché la tiroidite post-partum può contribuire o peggiorare la depressione del post-partum”.

“Pur essendo codificati una serie di controlli sulla tiroide, soprattutto in relazione all’età più avanzata delle gestanti italiane – commenta il prof. Antonio Lanzone, direttore della l’U.O.C. Ostetricia e Patologia Ostetrica della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS e Ordinario di Ginecologia e Ostetricia all’Università Cattolica – occorre dare un messaggio complessivamente tranquillizzante sulla gestione di queste gravidanze”.

“Il punto più critico sembra essere la valutazione precoce, che conviene fare in epoca pre-concezionale, poiché nel primo trimestre (periodo più delicato) potrebbe risultare un poco tardiva l’identificazione di forme cliniche manifeste. Tuttavia, oggi sono state ridimensionate le indicazioni all’anticipazione del parto in forme cliniche controllate, anche quando gravate da positività anticorpale. È giusto in tal senso attuare, laddove possibile, un colloquio multidisciplinare, ai fini dell’ottimizzazione della salute materno-fetale”.

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