Dalla riduzione dei tempi di cura, effetti a cascata positivi per ospedali, pazienti e caregiver. Ne abbiamo parlato con il prof. Vito Antonio Delvino Direttore Generale Istituto Tumori “Giovanni Paolo II” IRCCS Bari
Nella gestione dei reparti ospedalieri dedicati al trattamento delle malattie oncoematologiche che impatto hanno i costi economici e organizzativi, legati alla somministrazione dei farmaci?
L’impatto è certamente importante perché si tratta di una componente significativa della spesa sia per il costo del farmaco in quanto tale sia per il tempo/lavoro che viene richiesto per l’acquisizione ma soprattutto per la preparazione del farmaco e poi per la sua somministrazione. È ovvio che il tempo di permanenza del paziente in ospedale fa aumentare i costi in maniera proporzionale, perché è un tempo di assistenza. I costi e il loro impatto variano sulla base di diversi parametri. Anche in tale ambito i volumi possono incidere positivamente sui costi perché consentono di realizzare economie di scala.
Quanto è importante avere una visione di budget a 360 gradi che non tenga in considerazione solo i costi diretti dei farmaci ma anche i costi legati al sociale?
Questo è un problema di cui mi interesso da molti anni. Non esistono studi scientificamente controllati sull’impatto dei costi sociali per l’assistenza ai pazienti. Alcuni anni fa ho partecipato ad un gruppo di studio che ha provato a quantificare i costi connessi con la terapia dialitica per i pazienti sottoposti a emodialisi in ospedale messi a confronto con i pazienti che potevano fare la dialisi domiciliare. Ci si rese conto in quell’occasione che l’assistenza è una componente importante dei costi indiretti dal momento che coinvolge insieme al paziente i suoi famigliari e il caregiver.
Questo in oncologia è particolarmente rilevante, perché la somministrazione dei chemioterapici avviene quasi sempre in ospedale, dove a volte il paziente rimane per diverse ore. In genere si tratta di un paziente con delle difficoltà che viene accompagnato nell’80% dei casi da un famigliare, che lo aspetta o viene a riprenderlo. Si tratta di giornate di lavoro che possono essere quantificate e che incidono significativamente sull’economia del territorio.
È un problema che deve essere valutato a livello di programmazione regionale, perché non incide direttamente sui bilanci di un’azienda o di un istituto di ricerca ma ha un impatto sulla comunità. In Puglia, per esempio, assistiamo a una significativa fuga di pazienti anche solo per la chemioterapia. Questo vuol dire che ci sono molti pazienti, famigliari e caregiver che perdono numerose giornate di lavoro per raggiungere città di altre Regioni.
Ci può spiegare in che modo il semplice passaggio da una formulazione per endovena a una sottocutanea può favorire una maggiore efficienza organizzativa, operativa ed economica all’interno delle strutture ospedaliere, con importanti risparmi in termini di costi e carichi di lavoro?
Quello che cambia in maniera clamorosa e drammatica è il tempo in cui è impegnata l’equipe di assistenza per preparare il farmaco prima e poi per assistere il paziente. Alcune terapie richiedono una lenta somministrazione che in qualche caso può raggiungere le 5 ore. Una somministrazione sottocute che dura pochi minuti significa 5 ore in meno di impegno degli operatori sanitari per quel determinato paziente. Non solo. La preparazione sottocute standard, che non deve essere commisurata al peso corporeo del paziente, non comporta tempi di preparazione a livello di farmacia, con ulteriore risparmi di tempo e personale.
Vanno poi considerati i costi sociali: la permanenza in ospedale per pochi minuti o quanto meno per un tempo assai inferiore a quello che occorre per la somministrazione convenzionale per endovena, comporta anche una riduzione di impegno globale per il paziente e il suo accompagnatore.
Aggiungiamo a tutto questo il fatto che molte delle preparazioni fatte endovena non possono essere eseguite in una vena periferica ma va predisposto un catetere in una vena profonda, e questo richiede costi per i device, tempo per l’allestimento, cure per evitare che si coaguli l’accesso o per evitare che si infiammi.
Ma c’è un ulteriore aspetto che mi preme sottolineare: vale a dire quello della maggiore compliance dei pazienti, che hanno un impegno di tempo inferiore, che non devono mettere il catetere, etc. Molti pazienti purtroppo hanno difficoltà a sottoporsi alla chemioterapia, ritenendo che i disagi connessi con queste lunghe terapie siano insopportabili. La somministrazione sottocute riduce i disagi per i pazienti e le famiglie e questo è un fatto di grande valore in termini sociali.
Come promuovere all’interno degli ospedali l’adozione di innovazioni che contribuiscano a migliorare la gestione dei reparti, investendo in percorsi di sviluppo organizzativo?
Questo aspetto viene un po’ lasciato alle scelte delle direzioni strategiche o delle direzioni di dipartimento. Ogni ospedale si è organizzato sulla base delle risorse disponibili e delle proprie scelte gestionali. Naturalmente il percorso è semplificato laddove esiste un nucleo di Health Technology Assessment, come mi sto sforzando di fare anche nell’ospedale che dirigo, con specialisti dotati di competenze complementari, quindi gruppi multidisciplinari composti da un ingegnere, un clinico, un infermiere, un farmacista e un esperto di economia sanitaria, che valutano le innovazioni della tecnologia dal punto di vista multidimensionale: certamente l’efficacia, la possibilità di incidere migliorando l’efficienza, il rapporto costo/benefici, il maggiore o minore impegno per quel che riguarda il risk management, cioè il rischio di errore connesso con l’innovazione della tecnologia.
Questo è il percorso che proviamo ad attuare nella nostra realtà, con ancora maggiore attenzione dal momento che nella nostra mission abbiamo anche una componente di ricerca: oltre a testare quello che viene immesso sul mercato abbiamo anche l’obbligo di fare valutazioni predittive su quelle innovazioni tecnologiche che sono ancora in studio.