Osservata nell’universo ancora giovane (1,25 miliardi di anni dopo il Big Bang), grazie al James Webb Space Telescope, la galassia GS-9209 ha una massa stellare simile a quella della Via Lattea e ha già terminato la formazione di stelle: le sue caratteristiche fanno luce sulla nascita delle galassie sferoidali e la connessione con i buchi neri di grande massa
Bologna, 23 maggio 2023 – Una collaborazione tra studiosi dell’Università di Edimburgo (Regno Unito) e dell’Università di Bologna ha identificato la più antica galassia quiescente – cioè che non forma più stelle – finora conosciuta. La galassia – chiamata GS-9209 – è stata osservata 1,25 miliardi di anni dopo il Big Bang: un’epoca che corrisponde a circa il 9% dell’età attuale dell’Universo. E a quel punto la formazione di nuove stelle al suo interno si era già fermata da circa mezzo miliardo di anni.
La scoperta – pubblicata sulla rivista Nature – è stata possibile grazie al James Webb Space Telescope e ci offre nuovi indizi per comprendere i processi fisici che guidano la formazione e l’evoluzione delle galassie. In particolare, lo studio ha permesso di evidenziare la correlazione tra la presenza di buchi neri supermassicci e l’inibizione della capacità delle galassie di formare nuove stelle.
La massa stellare della galassia GS-9209 è molto simile a quella della Via Lattea: 40 miliardi di volte più grande della massa del Sole. A differenza della nostra galassia, però, GS-9209 ha una forma sferoidale (e non a spirale), ed è estremamente compatta: è circa 10 volte più piccola della Via Lattea. I dati spettroscopici analizzati ci dicono che la sua formazione è avvenuta tra 600 e 800 milioni di anni dopo il Big Bang, quindi quando l’Universo aveva un’età pari a circa il 4% di quella attuale. Dopodiché il processo di formazione di nuove stelle al suo interno si è fermato.
“Lo stato di quiescenza in cui si trova GS-9209 è strettamente correlato alla presenza, nel centro della galassia, di un buco nero supermassiccio con una massa tra mezzo miliardo e un miliardo di volte la massa del Sole – spiega Andrea Cimatti, direttore del Dipartimento di Fisica e Astronomia “Augusto Righi” dell’Università di Bologna, tra gli autori dello studio – Si tratta di una massa cinque volte più grande di quanto ci si potrebbe aspettare in relazione al numero di stelle presente nella galassia: un dato che potrebbe spiegare perché il processo di formazione stellare si è interrotto”.
La crescita dei buchi neri supermassicci rilascia infatti enormi quantità di energia sotto forma di radiazione, che riscalda e spinge via il gas presente nella galassia, facendo venire meno le condizioni che permettono la formazione stellare (la presenza di gas e le basse temperature).
“Quella che abbiamo scoperto è la galassia quiescente massiccia, già matura, osservata più vicino al Big Bang fino ad oggi: in altre parole, si tratta di una galassia vecchia in un Universo molto giovane – dice Cimatti – Le sue particolari caratteristiche ci dicono che è cresciuta in tempi rapidi e attraverso una formazione stellare estremamente intensa: un risultato che conferma le ipotesi finora formulate sulla nascita delle galassie sferoidali”.
Le galassie sferoidali oggi note hanno infatti in genere masse molto elevate (anche più di 100 volte maggiori della Via Lattea), includono stelle molto vecchie (con età fino a 13 miliardi di anni) e contengono al loro centro un buco nero supermassiccio. Per spiegare queste caratteristiche, era necessario ipotizzare che la formazione stellare fosse avvenuta molto tempo fa e molto rapidamente, ma che qualche processo l’avesse poi improvvisamente arrestata.
Confermare questa teoria significava però riuscire a osservare galassie molto giovani. Nel 2004, grazie ad osservazioni con il Very Large Telescope dell’European Southern Observatory (Cile), furono identificati alcuni risultati promettenti in epoche cosmiche fino a circa 10 miliardi di anni fa. Da allora non era però stato possibile andare ulteriormente indietro nel tempo, a causa della mancanza di telescopi adeguati.
La svolta è arrivata oggi, grazie al nuovo James Webb Space Telescope, che ha permesso agli studiosi di esplorare l’universo a distanze ancora maggiori e, quindi, in tempi ancora più remoti.
Lo studio è stato pubblicato su Nature con il titolo “A massive quiescent galaxy at redshift 4.658”. Per l’Università di Bologna ha partecipato Andrea Cimatti, professore al Dipartimento di Fisica e Astronomia “Augusto Righi”.