Milano, 9 marzo 2023 – Uno studio del Centro Cardiologico Monzino, pubblicato sulla rivista European Journal of Preventive Cardiology, rivela come il “deficit funzionale” di ferro sia un fattore prognostico per lo scompenso cardiaco che contribuisce a prevedere l’evoluzione della malattia e permette di curarla meglio. I dati appena pubblicati confermano infatti che nei pazienti con scompenso cardiaco il deficit “funzionale” di ferro si associa ad una prognosi peggiore, motivo per cui è molto importante diagnosticarla e trattarla per ridurre il rischio di mortalità.
È noto che anemia e deficit di ferro sono fattori di rischio per ospedalizzazione e mortalità nei pazienti con scompenso cardiaco. Si stima, infatti, che l’anemia, che significa scarsi valori di emoglobina nel sangue, riguardi il 53-58% dei pazienti con scompenso, mentre il deficit di ferro, definito come insufficienza della disponibilità di ferro per le necessità di tutto l’organismo, sia presente nel 60-70% dei pazienti.
“Il deficit di ferro se definito esclusivamente secondo i criteri delle Linee Guida Internazionali non sempre permette di identificare tra tutti i pazienti con scompenso cardiaco quelli a rischio più elevato e che quindi, più degli altri, giovano di supplementazione di ferro. Noi, grazie ai nostri studi, abbiamo identificato quali sono i parametri in grado di individuare questo sottogruppo di pazienti a più alto rischio. Si tratta dei pazienti che presentano un deficit funzionale di ferro, vale a dire pazienti che presentano valori di ferritina (il ferro “in stock” in alcuni organi) fra 100 e 300 mcg/L e saturazione della transferrina (la proteina che trasporta il ferro nel sangue) inferiore al 20%. In pratica in queste persone la disponibilità di ferro è insufficiente per lo svolgimento delle funzioni cellulari, prima fra tutte la produzione di energia, anche se hanno globalmente adeguati depositi di ferro”, spiega il prof. Piergiuseppe Agostoni, coordinatore dello studio, Direttore del Dipartimento Cardiologia Critica e Riabilitativa del Centro Cardiologico Monzino e Professore ordinario di malattie cardiovascolari all’Università degli Studi di Milano.
“Infatti, affinché la quantità di ferro non influisca negativamente sulla gravità della malattia occorre che ve ne sia abbastanza, sia fermo nei depositi che “in circolazione”, cioè a disposizione di tutte le cellule dell’organismo che ne hanno bisogno. Un altro importante aspetto da tenere in considerazione – prosegue Agostoni – è che la prognosi peggiore associata al deficit funzionale molto probabilmente è causata dalla presenza di uno stato infiammatorio cronico. Questa osservazione cambia il modo di vedere lo scompenso, che può manifestarsi anche come una malattia infiammatoria”.
Lo studio ha reclutato 800 pazienti ricoverati al Centro Cardiologico Monzino con diagnosi di scompenso cardiaco che sono stati seguiti per 5 anni con l’obiettivo di valutare la relazione fra deficit di ferro e mortalità.
“Al Monzino noi misuriamo l’assetto del ferro a tutti pazienti. Il messaggio clinico del nostro lavoro è quindi prima di tutto una raccomandazione a tutti i centri specializzati di eseguire gli esami del sangue necessari ad individuarne l’eventuale carenza. Ricordiamo inoltre che in presenza di deficit funzionale di ferro esistono già dei farmaci mirati, come il Ferrocarbossimaltosio, somministrabili per via endovenosa. Una diagnosi appropriata può quindi salvare la vita di molti pazienti e migliorarne la qualità” conclude il prof. Agostoni.