Lo studio è stato coordinato da Francesco Papaleo dell’Istituto Italiano di Tecnologia e pubblicato su Nature Communications. La scoperta permetterà di progettare test biologici per una medicina personalizzata e di precisione in ambito psichiatrico
Genova, 20 luglio 2018 – Non tutti gli individui rispondono allo stesso modo ai trattamenti farmacologici e la ragione è nel nostro DNA. Un gruppo internazionale di ricerca coordinato dall’IIT-Istituto Italiano di Tecnologia ha individuato una variazione genetica che influisce sull’efficacia dei farmaci antipsicotici nei pazienti con schizofrenia. Si tratta del gene Dysbindin e i pazienti che rispondono in modo adeguato agli psicofarmaci più comuni sono le persone portatrici di una sua variazione.
La scoperta è stata realizzata grazie allo studio di un campione di pazienti con schizofrenia in età adulta e di adolescenti ai primi esordi, e dell’analisi di tessuti cerebrali post-mortem, coinvolgendo istituti clinici come il Laboratorio di Neuropsichiatria della Fondazione IRCCS Santa Lucia e l’Ospedale Bambino Gesù di Roma, e gli statunitensi Johns Hopkins University e National Institute of Mental Health.
La ricerca permetterà di definire trattamenti farmacologici personalizzati in ambito psichiatrico, con particolare attenzione verso i disturbi cognitivi. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista scientifica internazionale Nature Communications ed è stato coordinato dal ricercatore Francesco Papaleo, responsabile del laboratorio di Genetics of Cognition dell’IIT a Genova, con il sostegno della Compagnia di San Paolo.
I disturbi cognitivi nella schizofrenia, e in altre patologie psichiatriche, rappresentano i sintomi più precoci e debilitanti per i pazienti. I farmaci ad oggi disponibili riescono a migliorare solo parzialmente le alterazioni cognitive e solo per un certo gruppo di persone. Inoltre, non esistono test biologici che permettono di predire quale sia il trattamento migliore per i diversi individui che presentano queste patologie.
I ricercatori hanno lavorato per individuare variazioni genetiche che fossero correlabili sia alla risposta ai farmaci antipsicotici, sia ad un comportamento cognitivo deficitario, a sua volta legato alla regolazione della dopamina nel cervello. La dopamina, infatti, è il neurotrasmettitore che nella corteccia cerebrale svolge un importante ruolo nelle funzioni cognitive e nello stesso tempo è il target di molti farmaci antipsicotici.
Nell’analizzare la popolazione di pazienti con schizofrenia, il gruppo di ricerca ha individuato un sottogruppo di pazienti che presentava una variazione genica in un gene chiamato Dysbindin, il quale regola il meccanismo alla base del sistema dopaminergico del cervello. Una variazione del gene, infatti, altera la funzionalità dei recettori per la dopamina nella corteccia cerebrale, scatenando di conseguenza disturbi cognitivi.
I ricercatori hanno quindi studiato i meccanismi cerebrali alla base dell’interazione tra i farmaci antipsicotici e queste variazioni genetiche in soggetti sani, pazienti con schizofrenia e modelli murini, scoprendo che i farmaci hanno un’azione efficace nel potenziare i recettori dopaminergici nella corteccia prefrontale, ovvero nel ripristinare le performance cognitive superiori, solo nei portatori della variazione genica di Dysbindin.
Per concludere lo studio, il gruppo di ricerca ha confermato e replicato la scoperta grazie all’accesso alla banca dati del trial clinico americano “CATIE” (Clinical Antipsychotic Trials of Intervention Effectiveness) in cui è stato possibile osservare un grosso campione di soggetti con schizofrenia, provenienti da diversi centri clinici, i quali erano stati esposti al trattamento con un unico farmaco antipsicotico e seguiti cognitivamente e clinicamente per 18 mesi.
Il risultato del lavoro è importante perché introduce l’utilizzo concreto della genetica nello sviluppo di terapie personalizzate in ambito psichiatrico, così come avviene già in altre specialità come l’oncologia.
Al lavoro hanno inoltre contribuito ricercatori delle Università di Padova e dell’Università di Cagliari, e del Lieber Institute for Brain Development negli USA.