Roma, 15 ottobre 2019 – Il Consiglio nazionale delle ricerche presenta oggi la Relazione sulla ricerca e l’innovazione in Italia 2019, un rapporto contenente analisi e dati di politica della scienza e della tecnologia, che l’Ente mette a disposizione di Governo, Parlamento e opinione pubblica.
All’evento, che si è svolto presso la sede centrale dell’Ente, hanno partecipato tra gli altri il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, il ministro dell’Istruzione, università e ricerca scientifica (Miur) Lorenzo Fioramonti, il presidente della Crui, Gaetano Manfredi, il presidente del Cnr Massimo Inguscio e i curatori della Relazione, Daniele Archibugi e Fabrizio Tuzi. Tra le autorità presenti: le ministre Elena Bonetti, Pari opportunità, e Paola Pisano, Innovazione tecnologica, e numerosi Rettori e Presidenti degli Enti di Ricerca.
In Italia, la spesa per Ricerca e Sviluppo (R&S) in rapporto al Prodotto interno lordo (Pil) è in lieve ripresa, passando dall’1,0% del 2000 a circa l’1,4% del 2016, grazie anche all’interruzione del trend di diminuzione degli stanziamenti pubblici. Restiamo tuttavia posizionati in fondo alla classifica dei paesi europei, dove il rapporto tra investimenti in R&S e Pil è quasi del 2%. Dopo la flessione del biennio 2014-15, sono in ripresa anche gli stanziamenti del Miur agli Enti pubblici di ricerca (Epr), passati da 1.572 milioni nel 2016 a 1.670 milioni nel 2018: il Cnr, in particolare, ha ottenuto nel biennio un incremento da 555 milioni a 602 milioni.
La quota dei ricercatori in rapporto alla forza lavoro, pur rimanendo ben al di sotto di quella degli altri paesi europei e distanziandosi ancora di più dalla media Ue, è costantemente cresciuta nell’ultimo decennio. Dal 2005 al 2016 i ricercatori sono aumentati di circa 60.000 unità. Tra i settori istituzionali, la crescita più rilevante si è registrata nelle imprese private: i dati più recenti mostrano una tendenza in atto che avvicina questo settore per numero di ricercatori all’università: quest’ultima rimane ancora l’area maggiore, con 78.000 addetti contro i 72.000 delle imprese, ma nell’università il numero complessivo è pressoché stazionario nel tempo. Anche gli Epr hanno registrato una crescita sensibile nel corso degli ultimi 10 anni, giungendo a circa 29.000 ricercatori, oltre il 15% del totale. Molto rilevante la quota di assegnisti: sono più del 20% dei ricercatori nelle università, e addirittura il 25% negli Enti.
Si rileva un progressivo aumento delle ricercatrici e, secondo le proiezioni, entro il 2025 il divario di rappresentanza di genere potrebbe pressoché scomparire nelle istituzioni pubbliche e ridursi drasticamente nelle università, mentre nelle imprese sembra rimanere sostanzialmente immutato. Tuttavia, queste proiezioni non considerano la progressione di carriera, che tuttora penalizza le donne.
Confrontando l’età dei ricercatori, la Relazione evidenzia come nell’università italiana gli over 50 superano la metà dei docenti, mentre nel Regno Unito e in Francia sono, rispettivamente, il 40% e il 37%. L’età media dei docenti italiani è di quasi 49 anni e quella dei ricercatori negli Epr è di 46. I ricercatori nelle imprese private hanno un’età inferiore, pari a 43 anni.
Il fenomeno è correlato al generale invecchiamento della popolazione italiana, ma testimonia anche la difficoltà di effettuare nel settore pubblico un reclutamento ordinario basato su una programmazione di lungo periodo. Secondo le proiezioni, in assenza di politiche strategiche di lungo periodo, l’età media dei ricercatori continuerà ad aumentare in tutti i comparti.
“La sfida della scienza passa anche per politiche orientate ad un futuro, che è già presente, in cui si realizzino le necessarie sinergie tra ricerca, tecnica, ambiente, patrimonio culturale: rafforzando così un patto che è iscritto nella nostra stessa Costituzione e che cerca di produrre, senza discriminazioni, benefici per le donne e per gli uomini – osserva il presidente del Cnr, Massimo Inguscio – Le donne e gli uomini che lavorano nella ricerca devono anche essere protagonisti di una politica di reclutamento adeguata. Siamo riusciti a non disperdere le competenze sviluppatesi negli anni, stabilizzando in modo molto significativo il lavoro precario, a far ripartire un nuovo reclutamento con concorsi nazionali competitivi organizzati per aree strategiche, a realizzare promozioni meritocratiche. Centrale sarà d’ora in poi una politica di investimento che consenta un reclutamento regolare e programmato ed eviti il prodursi di nuovo precariato”.
Per quanto riguarda la produzione scientifica, si conferma il quadro positivo della precedente Relazione: la comunità dei ricercatori italiani produce una quantità di pubblicazioni significativa e in crescita: sia come quota mondiale (quasi il 5% nel 2018), sia per qualità, attestata dalle citazioni medie ricevute per pubblicazione, che nel biennio 2017-18 sfiorano l’1,4. Una produzione scientifica analoga a quella della Francia, la quale però conta su un numero di ricercatori più elevato rispetto al nostro paese. La Relazione presenta anche una metodologia per identificare i punti di forza e di debolezza dei diversi settori della Ricerca accademica.
L’Italia continua a essere un partecipante attivo dei Programmi Quadro Europei, compreso Horizon 2020, conseguendo nel primo triennio del programma europeo settennale in corso l’8,7% dei finanziamenti: una quota però distante da quella dei finanziamenti ottenuti dai maggiori paesi europei quali Germania (16,4%), Regno Unito (14,0%) e Francia (10,5%). Il saldo tra quanto il Paese contribuisce per i Programmi Quadro dell’Ue a 28 e quanto riesce ad ottenere è purtroppo negativo: l’Italia, infatti, concorre con il 12,5% al bilancio complessivo e intercetta lo 8,7% delle erogazioni. Il risultato è dovuto in parte al minor numero di ricercatori presenti in Italia e in parte al tasso di successo dei progetti coordinati dal nostro Paese, pari al 7,5% a fronte di una media di Horizon 2020 del 13,0%.
“Ci sono margini di miglioramento che rendono necessario perseguire politiche strategiche. Per aumentare il tasso di ritorno dell’investimento europeo, occorre pensare a sostegni amministrativi, ad incentivi per chi presenta domande, favorendo la collaborazione pubblico-privato e l’innovazione, e coinvolgendo maggiormente idee e proposte dei giovani ricercatori”, osservano Daniele Archibugi e Fabrizio Tuzi, ricercatori Cnr tra gli autori della Relazione.
Per quanto riguarda l’entità del public procurement, cioè gli appalti pubblici, i dati evidenziano effetti marginali: gli avvisi relativi al settore Ricerca e Sviluppo sono 6 ogni mille gare bandite, mentre nel Regno Unito sono 10 su mille e in Germania 8. Il procurement di R&S nel 2018 ha raggiunto i 176 milioni di euro, appena lo 0,15% del totale dei beni e servizi acquistati dalla pubblica amministrazione. Basterebbe un moderato aumento di questi numeri per incrementare notevolmente l’investimento totale in R&S: se, ad esempio, il valore arrivasse all’1% degli appalti pubblici nazionali, con un incremento di circa 6 volte rispetto alla spesa attuale, si genererebbe un significativo strumento per promuovere l’innovazione industriale.
Gli indicatori relativi alle prestazioni tecnologiche continuano a mostrare minimi segnali di miglioramento. Per quanto riguarda il saldo commerciale nell’alta tecnologia, nell’ultimo decennio il deficit registrato dall’Italia è diventato meno rilevante, attestandosi nel 2018 su -4 miliardi di dollari. I settori high-tech dove si riscontrano le maggiori quote esportate si confermano l’Automazione industriale, con il 7% delle esportazioni mondiali, e la Farmaceutica, con circa il 4,5%. Anche i brevetti depositati ogni 100.000 abitanti hanno mostrato un incoraggiante miglioramento: 6,7% nel 2016; 7,2% nel 2018. I brevetti italiani continuano, tuttavia, ad essere solo il 2,52% sul totale mondiale.