Il finanziamento pubblico alle sperimentazioni indipendenti è ancora insufficiente (24 milioni e 163mila euro nel 2018). Le regole attuali ostacolano gli scienziati. Vanno velocizzate le procedure autorizzative e le approvazioni dei Comitati Etici. È necessario il riconoscimento della figura professionale dei data manager e investire nell’innovazione. ACC, FADOI, FICOG, Fondazione GIMEMA e GIDM: “Richiediamo al più presto un tavolo tecnico istituzionale”
Roma, 4 maggio 2021 – Servono più fondi per la ricerca clinica in Italia. Il finanziamento pubblico in questo settore è, da sempre, sottodimensionato nel nostro Paese. Nel 2018, solo 24 milioni e 163mila euro sono stati erogati dal Ministero della Salute per sostenere le sperimentazioni non sponsorizzate dall’industria. Un abisso separa questa cifra dagli 806 milioni di dollari erogati negli Stati Uniti nel 2017 solo per gli studi sul cancro. Per questo è necessario che finanziamenti dai 20 miliardi del Recovery Plan indirizzati alla sanità siano riservati proprio alla ricerca clinica indipendente.
La richiesta è avanzata oggi in una conferenza stampa dai principali gruppi di esperti che si occupano di sperimentazioni nel nostro Paese, cioè ACC (Alleanza Contro il Cancro), FADOI (Federazione delle Associazioni dei Dirigenti Ospedalieri Internisti), FICOG (Federation of Italian Cooperative Oncology Groups), Fondazione GIMEMA (per la promozione e lo sviluppo della ricerca scientifica sulle malattie ematologiche) e GIDM (Gruppo Italiano Data Manager).
E porta la loro firma il documento, inviato proprio oggi alle Istituzioni, in cui vengono delineati i tre capisaldi per il rilancio della ricerca clinica a partire dai criteri per semplificare, armonizzare e velocizzare le procedure autorizzative, che richiedono tempi ancora troppo lunghi. Inoltre, il documento sottolinea la necessità di stabilizzare contrattualmente il personale di supporto, in particolare i coordinatori di ricerca clinica (data manager). Il terzo capitolo riguarda il potenziamento delle infrastrutture digitali per garantire un salto di qualità degli studi. Per procedere rapidamente, è necessario istituire al più presto un tavolo tecnico istituzionale.
“Nel 2019, in Italia, sono state autorizzate 672 sperimentazioni, 516 profit e 156 no profit. E quasi il 40% ha riguardato l’oncologia – afferma Carmine Pinto, Presidente FICOG – Le difficoltà a cui va incontro la ricerca non sponsorizzata dall’industria sono sintetizzate nella diminuzione del 4,1% del numero di studi indipendenti dal 2018 (27,3% del totale) al 2019 (23,2%). La parola d’ordine deve essere innanzitutto semplificazione, anche cogliendo le esperienze positive maturate durante la pandemia, che ha imposto la rapida attivazione di protocolli di studio per affrontare il Covid mantenendo attive le sperimentazioni in corso su tutte le altre patologie. Ai promotori di ricerca clinica sono ben presenti il peso della documentazione richiesta dall’autorità competente (AIFA o Ministero della Salute) e soprattutto la necessità, per gli studi multicentrici, di ottenere l’autorizzazione di tutti i Comitati Etici ai quali afferiscono i centri coinvolti, ottemperando a procedure e richieste di documentazione spesso eterogenee e ridondanti. Questa eccessiva frammentazione va superata, perché rallenta il sistema. Va attuata e migliorata la riforma già prevista per i Comitati Etici. Il modello nazionale di contratto per gli studi clinici no profit proposto da AIFA, che presentano significative peculiarità rispetto a quelli sponsorizzati, va sicuramente in questa direzione”.
“Inoltre serve maggiore uniformità della documentazione richiesta dai vari Comitati Etici – sottolinea Dario Manfellotto, Presidente FADOI – L’approvazione della lettera informativa per il paziente e del modulo di consenso rappresenta un passaggio critico del percorso autorizzativo, che fa emergere le differenze fra singoli regolamenti dei Comitati Etici territoriali. La richiesta, da parte del Comitato Etico, di apportare correzioni e integrazioni alla modulistica del consenso informato è molto frequente e onerosa anche in termini temporali, in particolare per le sperimentazioni multicentriche. Può essere valutata positivamente la proposta, formulata dal Centro di Coordinamento Nazionale dei Comitati Etici territoriali, di specifiche linee di indirizzo per la raccolta del consenso informato, che devono essere applicate in maniera uniforme a livello nazionale. Così può essere evitata l’eterogeneità che ha finora caratterizzato i comportamenti dei Comitati Etici, creando entropia e sovraccarico del sistema”.
“Il completamento dell’iter autorizzativo degli studi comprende anche il coinvolgimento delle Amministrazioni Ospedaliere, per la concessione della relativa delibera ed eventualmente la stipula di un contratto – spiega Gualberto Gussoni, Coordinatore Scientifico Centro Studi Fondazione FADOI – Purtroppo, di fatto, questi passaggi risultano spesso più farraginosi e lenti rispetto a quelli già complessi che coinvolgono il Comitato Etico. Questa situazione rispecchia una generale scarsa attenzione delle Amministrazioni Ospedaliere rispetto alle esigenze della ricerca clinica. A parte gli IRCCS, cioè le strutture che includono la ricerca fra i propri compiti costitutivi, solo in poche realtà gli obiettivi di mandato dei Direttori Generali contemplano la promozione delle sperimentazioni. Un segnale in tale direzione può determinare un impatto positivo per tutto il sistema. E deve essere colmato il vuoto completando il processo di riforma della normativa sulle sperimentazioni cliniche (n.3/2018). È stato approvato il primo decreto attuativo della legge delega (DL 52/2019), ma servono ulteriori decreti ministeriali e provvedimenti di AIFA, ISS e MIUR, per definire aspetti importanti come l’utilizzo di materiale biologico residuo dagli studi clinici, la cessione dei dati degli studi no profit a fini registrativi, la necessità di procedure operative standard e i requisiti dei centri dalle fasi I alla IV”.
Altra criticità è quella del personale addetto in ricerca e sviluppo, che in Italia è intorno a 9 per mille unità di forza lavoro, rispetto a 15 per 1000 della Germania e a una media dell’Unione europea di circa il 12 per mille. E il nostro Paese è fanalino di coda fra i Paesi OCSE anche per numero di ricercatori occupati.
“La gestione delle sperimentazioni cliniche sta diventando sempre più complessa, tanto da richiedere competenze specifiche e multidisciplinari, che comprendono non solo aspetti scientifici ma anche ambiti di carattere etico, normativo e organizzativo – afferma Celeste Cagnazzo, Presidente GIDM – Questa evoluzione si traduce nella necessità di avere in organico diverse figure professionali, come i coordinatori di ricerca clinica, infermieri di ricerca, biostatistici, esperti in revisione di budget e contratti, che si sono dimostrati in grado di migliorare le performance e la qualità della ricerca clinica. Alcune di queste figure sono richieste dalla normativa in vigore. Ciononostante, ad oggi risulta quasi impossibile ottenere la stabilizzazione di queste professionalità all’interno dell’organizzazione sanitaria. Né la figura del coordinatore di ricerca clinica né quella dell’infermiere di ricerca sono riconosciute a livello istituzionale e pertanto non vengono contemplate dai contratti della sanità pubblica e privata”.
“Assistiamo quindi – continua Marco Vignetti, Presidente Fondazione GIMEMA – a una estrema difficoltà ad ottenere una continuità di prestazioni lavorative e a una costante migrazione di personale esperto e qualificato verso aziende farmaceutiche e organizzazioni di ricerca a contratto, con la creazione di un preoccupante gap professionale che rischia di compromettere l’efficienza e la qualità della ricerca, soprattutto quella di natura accademica. È indispensabile individuare, con l’aiuto delle Istituzioni, un percorso legislativo per il riconoscimento di tali figure, stabilendo anche i requisiti minimi per i futuri coordinatori di ricerca clinica. Va inoltre attivato, in tempi rapidi, un sistema di formazione che consenta l’aggiornamento delle competenze di professionalità già presenti”.
In Italia, la spesa in ricerca e sviluppo è pari all’1,2% del PIL, mentre la media dei Paesi europei raggiunge il 2%, con la Germania quasi al 3%. “Pur avendo poche risorse a disposizione, gli studi condotti in Italia hanno cambiato la pratica clinica a livello internazionale in diversi tipi di tumori, portando alla modifica di linee guida e raccomandazioni – afferma Ruggero De Maria, Presidente ACC – E i lavori scientifici italiani in ambito oncologico sono tra i più citati al mondo, subito dopo quelli del Regno Unito. La ricerca clinica si muove verso modelli di generazione delle conoscenze scientifiche, anche attraverso i big data, che sempre più presuppongono la presenza di dati clinici originali e di archivi digitali, la disponibilità di piattaforme tecnologiche per la comunicazione, l’automatizzazione dei processi e l’applicazione dell’intelligenza artificiale”.
“Il tema ‘digitalizzazione e innovazione’ rappresenta uno degli assi strategici attorno ai quali si sviluppa il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza conseguente alla pandemia – conclude Paolo De Paoli, Direttore Generale di ACC – È l’occasione per realizzare gli adeguamenti infrastrutturali necessari a compiere un ‘salto digitale’ anche in materia di ricerca clinica che vada al di là del contesto emergenziale e che sia il più possibile omogeneo e diffuso a livello nazionale, consentendo al Paese di affrontare in maniera competitiva le sfide e le opportunità che la ricerca clinica sempre più offrirà nei prossimi anni. E ciò anche valorizzando un Servizio Sanitario Nazionale universalistico, che continua a rappresentare una delle maggiori ricchezze e peculiarità del Paese. Inoltre la digitalizzazione non riguarda solo gli aspetti tecnologici, ma anche quelli normativi, perché la ricerca ha esigenze di raccolta e utilizzo dei dati e di trasferimento alla clinica in tempi congruenti. Senza dimenticare l’importanza della collaborazione in rete (ACC è la rete degli IRCCS oncologici) per raggiungere gli obiettivi comuni”.