A cura del prof. Claudio Viscoli, Presidente SITA e Direttore Clinica Malattie Infettive A.O.U. IRCCS San Martino-IST, Genova. “Durante i circa 70 anni di uso (forse cattivo uso) degli antibiotici, i batteri hanno dimostrato di avere una incredibile capacità di resilienza, riuscendo di volta in volta ad adattarsi alla presenza del nuovo ‘veleno’ e a diventare ad esso resistenti”
Genova, 24 marzo 2016 – Il fenomeno della perdita di efficacia degli antibiotici per sviluppo di efficaci meccanismi di resistenza batterica fu efficacemente preconizzato da Alexander Fleming nel 1945. Nella sua lettura in occasione della consegna del Premio Nobel, (condiviso con gli altri due scopritori o sviluppatori della molecola – Ernst Chain e Howard Florey, Fleming scrisse che la penicillina poteva perdere di efficacia perché, se male usata e sotto-dosata, poteva non uccidere i batteri ma indurre lo sviluppo di meccanismi di resistenza. Preconizzò addirittura che un microrganismo così modificato avrebbe potuto diventare un temibile killer.
Da allora, in effetti, durante i circa 70 anni di uso (forse cattivo uso) degli antibiotici, i batteri hanno dimostrato di avere una incredibile capacità di resilienza, riuscendo di volta in volta ad adattarsi alla presenza del nuovo ‘veleno’ e a diventare ad esso resistenti. A sua volta, l’industria farmaceutica e la ricerca indipendente sono sempre riuscite a parare il colpo, mettendo di volta in volta a disposizione dei medici nuovi antibiotici in grado di vanificare i nuovi meccanismi di resistenze messi in atto dai batteri. Purtroppo, da qualche anno non è più così.
Per vari motivi, i nuovi antibiotici sono pochi e sembrerebbe che i batteri stiano riuscendo a riprendere il sopravvento. Infatti, con un gradiente geografico da sud a nord e da est a ovest, si sono andati diffondendo nel mondo ceppi particolari di batteri opportunisti (quelli che approfittano delle ridotte difese di organismi umani defedati per causare infezioni) contro cui i comuni antibiotici non sono più attivi.
Uno dei più temibili “superbugs” è la Klebsiella pneumoniae produttrice di carbapenemasi e di beta-lattamasi ad ampio spettro (KPC-Kp). Dal 2008 al 2014, secondo i dati pubblicati da ECDC, rispetto a tutti i ceppi di Klebsiella isolati da sangue o liquor, in Italia si è osservato un incremento delle percentuali di KPC-Kp fino a posizionarsi a valori compresi il 25 e il 50%. Il resto d’Europa, seppur meno esposto, non è affatto in posizione di sicurezza. Infatti, in una recente pubblicazione del gruppo di lavoro EuSCAPE (European Survey of CarbapenemaseProducing Enterobacteriaceae), all’interno di un progetto lanciato nel 2012 da ECDC, con lo scopo di monitorare la diffusione e l’epidemiologia dei ceppi ECP (Enterobacteriaceae produttori di carbapenemasi) in cui sono coinvolti 38 Paesi europei, emerge che, sebbene in Italia questi batteri siano diffusi in forma endemica, molti degli altri paesi europei hanno un grado di diffusione inter-regionale non trascurabile.
In Italia, alcuni ospedali e alcune regioni solo recentemente e a seguito di vigorosi stimoli centrali, hanno cominciato a riportare centralmente i loro dati. Altri, più virtuosi, sorvegliano e riportano da anni. Per esempio, presso l’Ospedale San Martino di Genova dal 2007 al 2014 le sepsi da Klebsiella sono aumentate del 300% e l’aumento è stato dovuto in gran parte ai ceppi carbapenemasi-produttori. Solo negli ultimi due anni, a seguito di sforzi intensi dei gruppi di controllo, si è arrivati a un appiattimento della curva con lieve riduzione di casi.
I provvedimenti da mettere in opera per contrastare la diffusione di questi micro-organismi sono ben conosciuti ma non facilmente applicabili. L’educazione degli operatori sanitari al lavaggio delle mani e all’uso dei guanti, lo screening dei portatori di KPC-Kp e loro isolamento, lo screening dei contatti, le metodiche di staff-cohorting, la diagnosi microbiologica rapida e le metodiche di antimicrobial stewardship sono in grado, se applicate tutte insieme e da tutti gli ospedali e residenze sanitarie assistite allo stesso tempo, di arrestare il fenomeno, ma la messa in opera di queste procedure per tutti e dappertutto richiede risorse e una forte azione centrale che per ora non si è vista.
Da un confronto dei progetti nazionali finanziati dal 2007 al 2013 in Europa, il cui scopo è controllare le resistenze batteriche, si osserva che la maggior parte delle risorse sono state impiegate in progetti mirati alle terapie farmacologiche e solo una piccola parte agli interventi attivi. In UK, che ha investito molto anche in progetti sugli interventi diretti, si osserva oggi un maggiore controllo delle resistenze batteriche rispetto ad altri stati, in cui si è speso meno per la prevenzione e il controllo.
fonte: ufficio stampa