Quasi triplicati, in vent’anni, gli impianti di protesi ortopediche in Italia: da 80mila nel 2000, a oltre 220mila nel 2022. Un boom dovuto all’incremento dei pazienti giovani, al di sotto dei 60 anni, che si sottopongono a questo intervento, e al fatto che gli anziani, in cui l’impianto è molto frequente, sono sempre più longevi. Tutto ciò comporta un aumento crescente delle richieste di revisione perché saranno sempre più numerose le schiere di pazienti che vivranno più a lungo delle loro protesi, che hanno una durata media di circa 20 anni, rendendo necessaria la sostituzione del primo impianto. Una procedura complessa che richiede strutture altamente specializzate e la padronanza di specifiche tecniche chirurgiche, senza le quali migliaia di pazienti rischiano di diventare dei veri disabili
Verona, 7 marzo 2024 – Scadono come la lavatrice o il frigorifero: anche i dispositivi che ci consentono di recuperare una funzione articolare compromessa, come correre, saltare o salire le scale, definita nel 2007 da Lancet “l’intervento del secolo”, non durano per sempre e nel tempo vanno incontro alla necessità di un “tagliando”.
Una domanda in crescita esponenziale negli Stati Uniti che vale anche per l’Italia, per l’aumento progressivo di pazienti che vivranno più a lungo delle loro protesi, che hanno una durata media di circa 20 anni, a causa del dilatarsi dell’aspettativa di vita e dell’incremento di giovani, al di sotto dei 60 anni, che chiedono di sottoporsi a questo intervento.
“Continua ad aumentare in Italia il numero di interventi per l’impianto di protesi ortopediche all’anca, ginocchio e spalla, che in vent’anni sono quasi triplicati, passando da 80mila nel 2000 a oltre 220mila nel 2022, secondo i più recenti dati Agenas. Una quantità impensabile di impianti che colloca l’Italia tra i primi posti in Europa per numero di protesi impiantate in tutte le articolazioni e per i livelli di affidabilità. Causa più frequente l’artrosi che tende a degenerare con l’età”, dichiara Claudio Zorzi, tra i maggiori esperti, presidente del congresso e direttore dell’Ortopedia e Traumatologia dell’IRCCS di Negrar, che proprio in virtù dell’eccellenza raggiunta nel campo della revisione di protesi è tra i centri con la più alta casistica in Italia e struttura di riferimento regionale.
“Tuttavia – aggiunge – nonostante le moderne tecnologie siano riuscite a creare protesi di altissima qualità, la fisiologia dell’articolazione sottoposta a intervento di protesi è comunque ben diversa da quella naturale e ci possono essere molti fattori che ne influenzano il buon funzionamento: a partire dal naturale allentamento delle parti mobili, all’utilizzo eccessivo in sovraccarico, soprattutto nei pazienti più giovani o in chi è in sovrappeso, fino alle infezioni, o alla rottura molto rara delle componenti protesiche. Problemi che devono essere ripresi prima che vengano a crearsi gravi danni alle strutture ossee e legamentose”.
Anche se ancora oggi non è ipotizzabile, per ogni paziente, una previsione precisa della durata dell’impianto che tenga conto delle tante variabili in gioco come l’età, il sesso, il tipo di protesi impiegata, si può stimare che le protesi saranno ancora “buone” a 15-20 anni dall’impianto, nel 90% dei casi, secondo un ampio studio pubblicato su Lancet dai ricercatori dell’Università di Bristol.
Si calcola, infatti, che ogni anno siano oltre 20mila le protesi che abbiano bisogno di un tagliando, pari al 10% delle oltre 220mila protesi impiantate ad oggi annualmente. Un fenomeno destinato a una crescita esponenziale, in linea con i dati americani che prevedono aumenti record del 137% per la revisione di protesi all’anca e fino al 600% per la sostituzione di protesi del ginocchio, dovuto, da un lato, al fatto che gli anziani vivano sempre più a lungo e, dall’altro, all’aumento dei pazienti giovani, al di sotto dei 60 anni, che decidono di sottoporsi a questo intervento.
“Stimando una durata media della protesi di circa 15-20 anni, risulta evidente come un paziente giovane che ha ricevuto indicazione di protesi al di sotto dei 60 anni, o anche un paziente anziano che si è sottoposto all’impianto intorno ai 70 anni, ‘consumino’ la propria protesi in un’età in cui la richiesta funzionale o l’assenza di dolore è ancora alta e rende necessaria una revisione”, spiega Antonio Campacci, responsabile della Chirurgia dell’anca dell’IRCCS di Negrar e vicepresidente del congresso insieme al collega responsabile della Chirurgia della spalla, Paolo Avanzi.
“L’impianto di una protesi è una via a senso unico, se fallisce non si torna indietro e solo un’ulteriore protesi potrà cercare di garantire una funzione articolare che duri nel tempo”, sottolinea Campacci.
Una procedura molto complessa che per il suo successo richiede centri ad alta specializzazione e chirurghi esperti che si auspica aumentino in tutta Italia alla luce dell’incremento esponenziale delle revisioni. Una eventuale carenza rischia di creare migliaia di disabili, se la revisione fallisce, con importanti oneri per il Servizio Sanitario Nazionale.
“L’abitudine ad affrontare il problema protesico, già importante nei primi impianti, diventa essenziale nelle revisioni, in cui la pratica e l’esperienza riducono molto i rischi che i pazienti non raggiungano una normale autosufficienza”, puntualizza Zorzi.
Per fare il punto e affrontare questa emergenza, si riuniranno a Verona, il 7 e l’8 marzo, i maggiori esperti nazionali e internazionali per il 9° congresso dell’Associazione Italiana di Riprotesizzazione, organizzato dal Dipartimento di Ortopedia e Traumatologia dell’IRCCS di Negrar, al fine di discutere le tematiche chirurgiche più avanzate, definire un razionale scientifico e preparare i giovani chirurghi ortopedici alla chirurgia di revisione.