Roma, 19 maggio 2022 – È stato appena isolato anche in Italia, presso l’Istituto Spallanzani di Roma, il primo caso a livello nazionale del cosiddetto ‘monkey pox’, cioè il vaiolo delle scimmie, già in precedenza segnalato in Spagna, Portogallo e Inghilterra.
Chiamata appunto ‘vaiolo delle scimmie’, perché scoperta per la prima volta nel 1958 in alcune scimmie da laboratorio, questa rara patologia ciclicamente presente in numerose zone dell’Africa occidentale e centrale può però colpire anche altri animali, come roditori, topi, scoiattoli e conigli.
Il contagio dall’animale all’uomo è piuttosto raro, causato principalmente da contatto con fluidi corporei o croste di esemplari infetti. La trasmissione della malattia negli uomini, anch’essa piuttosto rara ma non impossibile, è invece causata non solo dal contatto con fluidi corporei del soggetto malato, ma anche dalla condivisione di biancheria e contatto ‘faccia a faccia’ prolungato.
Per saperne di più la Dire ha intervistato Matteo Bassetti, direttore della Clinica di Malattie infettive del Policlinico San Martino di Genova.
Prof. Bassetti, dopo il Covid arriva un’altra infezione, che mai si era vista prima?
“Faccio una premessa doverosa: sembra che I problemi infettivi stiano venendo fuori solo adesso, mentre sono sempre esistiti. Oggi è solo diversa l’attenzione mediatica, rispetto a quello che avveniva nell’epoca pre-Covid, e qualunque problema, anche piccolo, viene ingigantito dai media. È come se di colpo si fosse scoperto che ci sono i tumori o le malattie cardiovascolari. Fino a due anni fa il mondo pensava che il libro delle malattie infettive fosse chiuso e questo è stato un grave errore”.
Che cos’è il vaiolo delle scimmie?
“È un virus normalmente descritto in Africa molto simile a quello del vaiolo umano, che grazie alla vaccinazione sappiamo ormai essere debellato nel mondo, ma che in qualche modo ha continuato a riprodursi e a contagiare le scimmie, degli esseri viventi molto simili all’uomo anche per quanto riguarda l’evoluzione delle malattie infettive. Si tratta di un virus piuttosto aggressivo e difficile da gestire nelle scimmie, che porta in molti casi alla morte degli animali, così come accade nel vaiolo dell’uomo, cioè fino a un terzo o addirittura la metà dei casi muoiono”.
Come si trasmette?
“In Africa ci sono stati casi di trasmissione da scimmia all’uomo, laddove c’è stato un contatto ravvicinato, soprattutto tra chi vive nelle tribù. Il problema è che questo virus, tipicamente trasmesso dalla scimmia all’uomo o tra scimmia e scimmia, pare essere adesso trasmesso dall’uomo all’uomo per contatto diretto delle lesioni oppure attraverso le goccioline del respiro che noi eliminiamo. Attraverso un contatto molto ravvicinato, insomma, può esserci un contagio interumano.
È importante sottolineare che la maggioranza dei casi ad oggi riportati sono avvenuti all’interno di comunità chiuse, di cluster, fatte soprattutto da omosessuali che hanno avuto rapporti con altri uomini. È allora probabile che il contagio sia avvenuto durante o in prossimità di rapporti intimi sessuali.
Siamo allora di fronte a un virus che adesso ha una trasmissione interumana in Europa, quindi non è più un problema del continente africano, che certamente ci deve interessare, ma è un problema a noi molto vicino. E non escluderei che, a brevissimo, si verificassero dei casi in altri Paesi europei compresa l’Italia”.
Quanti casi sono stati finora segnalati in Europa?
“All’incirca una trentina: parliamo di 14 casi in Spagna, 9 in Inghilterra e 7 in Portogallo. Ma bisogna fare attenzione, perché io credo che potrebbero essercene anche molti di più”.
Quali sono i sintomi e come vengono diagnosticati?
“Non è una malattia semplice da diagnosticare perché simula molto altre forme di esantemi, può assomigliare alla varicella, alla sifilide o a molte altre malattie infettive. Quello che noi oggi come comunità scientifica dobbiamo fare è dire alle persone di non allarmarsi, perché è un’infezione che decorre in maniera blanda e non porta né alla morte come il vaiolo, né alla morte come il vaiolo delle scimmie, quello trasmesso dalla scimmia all’uomo, che aveva una mortalità del 10%. In questo caso è probabile che la percentuale sia abbondantemente al di sotto. È una malattia che si autolimita, cioè fa il suo corso naturale senza bisogno di assumere un farmaco, anche perché nei confronti del virus del vaiolo delle scimmie non esiste nessun farmaco specifico”.
Quanto è importante tracciare i casi?
“Molto, bisogna cercare di enucleare il fenomeno, di tracciare i casi appunto, e capire come queste persone si siano contagiate. Bisogna evitare, insomma, che questo virus diventi epidemico e cioè che abbia una diffusione su tante persone contemporaneamente.
Dobbiamo fare quello che non abbiamo fatto con il Covid, perché all’inizio si è taciuto sull’argomento, quindi informare la popolazione, i medici e chi opera nelle strutture sanitarie sul fatto che il problema esiste, che devono saper riconoscere il virus e, qualora si presentasse un caso in pronto soccorso o nello studio medico, è necessario andare a fare delle indagini specifiche, segnalandole alle autorità competenti. È molto importante fare squadra e mettere in comunione le conoscenze, come già abbiamo fatto nel caso per esempio delle epatiti nei bambini”.
“Non possiamo permetterci una nuova epidemia”, lei ha detto. Ma esiste davvero questo rischio?
“Le malattie infettive contagiose, come evidentemente il virus del vaiolo delle scimmie, hanno la capacità di diventare molto diffusive. C’è però da dire una cosa: il vantaggio grande di questo virus, a differenza del Covid, è che non si trasmette molto facilmente a livello di ‘respiro’. Qui parliamo di contagi che avvengono quando c’è un contatto molto stretto, ravvicinato e continuativo, per cui è più difficile che si possa assistere ad una epidemia.
Allo stesso tempo bisogna stare anche molto attenti, perché questi virus, che hanno vissuto tanto tempo negli animali e poi sono arrivati all’uomo, non sappiamo quale comportamento potrebbero avere e quale potrebbe essere la loro capacità di mutare e di diventare magari più contagiosi, oppure di assumere caratteristiche diverse. Quando un nuovo virus proveniente dal regno animale arriva negli uomini bisogna evitare che si verifichino molti casi, perché questo potrebbe voler dire, ovviamente, che esiste un rischio epidemico”.
(fonte: Agenzia Dire)