Parkinson, caffeina come farmaco. I benefici del consumo moderato di caffè

Prof. Ronald Postuma, Università di Montreal: “Il caffè non è solo un fattore protettivo sullo sviluppo della malattia, ma agisce anche come farmaco potenzialmente in grado di ritardarne l’evoluzione una volta che i sintomi si sono manifestati”

Roma, 9 giugno 2022 – La diatriba dei fattori di rischio e/o di protezione della malattia di Parkinson è da tempo oggetto di studio da parte dei neurologi della Società Italiana di Neurologia (SIN). In particolare Il consumo di caffè sembrerebbe avere carattere protettivo, dice il Presidente della Società Italiana di Neurologia prof. Alfredo Berardelli della Sapienza di Roma, una delle Università che hanno partecipato a un recente studio coordinato da uno dei pionieri italiani in questo tipo di ricerche: Giovanni Defazio dell’Università di Cagliari.

Prof. Alfredo Berardelli

Attività fisica

Simile effetto benefico ha anche una moderata attività fisica quotidiana precedente all’esordio della malattia con un miglioramento soprattutto sulla sintomatologia non motoria come dolore, incontinenza, ipotensione ortostatica, stipsi, disturbi del sonno, affaticamento, ansia, depressione, ecc.

Lo studio, a cui hanno partecipato anche le Università di Bari, Catania e Verona, oltre all’Albert Einstein College of Medicine di New York, al dipartimento di neurologia dell’ASST Pavia-Voghera e all’IRCCS Neuromed di Pozzilli, è stato appena pubblicato su Parkinson’s & Related Disorders indicando come un pregresso consumo moderato di caffè ritardi l’età d’esordio della malattia, inducendo comunque una sintomatologia meno grave.

Conferme

Anche un altro studio italiano pubblicato 2 anni fa su Neurobiology of disease aveva individuato fra 11 fattori di rischio e/o protettivi potenzialmente in grado di influenzare lo sviluppo della malattia di Parkinson la caffeina e l’attività fisica come capaci di migliorarne la progressione se presenti prima dell’esordio dei sintomi.

Lunghi studi

Il primo studio di Defazio fu presentato al convegno nazionale 2017 dell’Accademia Limpe-Dismov per il parkinson e i disordini del movimento: una review su 797 studi da cui risultavano a carattere protettivo:

  • attività fisica
  • fumo
  • caffè

Non un solo Parkinson

Un importante risultato di questa serie di studi, dice il prof. Defazio, è che la distribuzione dei vari possibili fattori di rischio individuati (ad es. familiarità per malattia di Parkinson, dispepsia, ecc.) non è uniforme, ma questi possono variamente presentarsi, individuando così vari sottotipi eziologici.

Ciò supporta la possibilità (spesso ventilata negli ultimi anni) che non esista una sola, ma diverse malattie di Parkinson con diverse eziologie e probabilmente diverse evoluzioni, ognuna delle quali risponde a diversi fattori di rischio e/o di protezione.

Caffeina come farmaco

Un autore che ha molto studiato gli effetti della caffeina su questa malattia è Ronald Postuma dell’Università di Montreal secondo il quale il caffè non è solo un fattore protettivo sullo sviluppo della malattia, ma agisce anche come farmaco potenzialmente in grado di ritardarne l’evoluzione una volta che i sintomi si sono manifestati.

Cautela

Siamo ancora nell’ambito delle forti probabilità – commenta Defazio – Dalle nostre ricerche emerge una plausibilità biologica evidente dal punto di vista epidemiologico secondo cui alcuni fattori, come ad esempio i pesticidi, sono a rischio, mentre altri, come l’attività fisica o il caffè, sono protettivi, ma sembrano esserlo anche il thè, la vitamina E o i FANS.

Va ancora capito come indirizzare l’azione di ognuno di questi fattori per una migliore riduzione del rischio: già altri Autori hanno visto, ad esempio, come non tutti i dosaggi di caffeina siano efficaci allo stesso modo. Occorre soprattutto attenzione a non ricavare da questi studi l’impressione che il caffè sia una sorta di panacea neuro-protettiva, perché c’è ancora molto da studiare.

Si può dire che il caffè non solo può prevenire la malattia (come indicano nostri studi precedenti), ma anche ritardarne l’età di esordio e, probabilmente, indure anche una più lenta evoluzione della sintomatologia motoria.

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