Milano, 17 giugno 2021 – È stato da poco pubblicato sul Nutrition, Metabolism & Cardiovascular Diseases un nuovo lavoro, tutto italiano, che oltre a confermare l’efficacia della stimolazione magnetica transcranica (TMS) per il trattamento dell’obesità ne dimostra l’interessante, e in parte inatteso, meccanismo d’azione a livello cerebrale.
Lo studio è stato coordinato dal gruppo di ricerca guidato dal prof. Livio Luzi, Direttore del Dipartimento interpresidio di Endocrinologia, Nutrizione e Malattie Metaboliche di MultiMedica e Ordinario di Endocrinologia presso l’Università degli Studi di Milano, in collaborazione con l’Università di Milano-Bicocca e con l’IRCCS Istituto Ortopedico Galeazzi e il Gruppo San Donato.
L’obesità rappresenta un’emergenza sanitaria e sociale sia per il numero di vittime, in crescita costante, sia per i significativi costi che la malattia e le complicanze cardio-metaboliche ad essa correlate comportano per la comunità. I dati più recenti parlano, solo per l’Italia, di 18 milioni di adulti in sovrappeso (35,5%) e 5 milioni di obesi, ovvero 1 persona su 10. Poter offrire a questi pazienti una terapia sicura, efficace e di semplice somministrazione è sicuramente una sfida cruciale.
La stimolazione magnetica transcranica è una delle tecniche di stimolazione neurale più impiegate nella cura delle dipendenze, come quelle da fumo o alcol. Si tratta di un trattamento non invasivo né doloroso, eseguito appoggiando sul cuoio capelluto un casco o una bobina che applica una sollecitazione elettromagnetica a regioni ben precise del cervello, generando a livello dei neuroni una microcorrente elettro-magnetica in grado di ripristinare gli equilibri alterati.
Nel 2019 uno studio aveva dimostrato l’utilità della TMS per favorire la perdita di peso negli obesi, senza tuttavia riuscire a spiegare in dettaglio i meccanismi neurofisiologici che ne sono alla base (Ferrulli et al., Diabetes Obesity and Metabolism, 2019).
La nuova ricerca pubblicata sulla rivista internazionale Nutrition, Metabolism & Cardiovascular Diseases si è posta l’obiettivo non solo di confermare l’efficacia della TMS nel ridurre il desiderio di cibo nei soggetti obesi ma anche di spiegarne i meccanismi d’azione cerebrali. A questo scopo, è stata impiegata una sofisticata tecnica di indagine, la risonanza magnetica funzionale, che ha permesso di studiare l’attivazione e le connessioni di specifiche aree del cervello (coinvolte nella regolazione del comportamento alimentare), in risposta a stimoli visivi correlati al cibo, prima e dopo il trattamento con TMS.
Lo studio, randomizzato verso un finto trattamento (placebo) e in doppio cieco, è stato condotto su 17 pazienti (6 dei quali affetti da diabete di tipo 2), sottoposti a 3 sessioni di TMS a settimana, ciascuna di circa 30 minuti, per un totale di 5 settimane.
“Nell’obeso vi è una ridotta attivazione della corteccia prefrontale e della insula, aree cerebrali che regolano i comportamenti volontari, con conseguente perdita di controllo sull’assunzione di cibo; inoltre, vi è un alterato meccanismo della ‘ricompensa’, dovuta a una ridotta produzione o azione della dopamina, il neurotrasmettitore che sovraintende al circuito cerebrale del reward”, spiega Livio Luzi, coordinatore dello studio.
“Il modo che ha il paziente obeso di aumentare la concentrazione di dopamina è quindi continuare a mangiare, trovando soddisfazione nel cibo. Nel nostro studio abbiamo dimostrato come, attraverso una stimolazione elettromagnetica bilaterale della corteccia prefrontale, si attivi quella regione cerebrale, andando ad aumentare il controllo inibitorio sul consumo di cibo e, indirettamente, attraverso un aumento delle connessioni cerebrali della medesima area, a regolarizzare la produzione di dopamina”.
“Una volta trattato, il paziente non avrà più bisogno di cercare nel cibo la ricompensa e, dunque, mangerà meno – spiega Luzi – La risonanza magnetica funzionale, eseguita all’inizio e al termine della terapia, dopo 5 settimane, ha confermato questa attivazione della corteccia prefrontale e il ritorno del metabolismo alla normalità, con una significativa riduzione di peso nei soggetti sottoposti a TMS e un effetto del trattamento che si protrae per diversi mesi”.
“Ma non è tutto – prosegue il prof. Luzi – Rispetto all’ipotesi inziale, lo studio ha messo in luce un altro dato importante e inaspettato: la stimolazione transcranica provoca contemporaneamente anche una inibizione della corteccia visiva, che porta il cervello a escludere la visione di cibi appetitosi verso i quali il paziente aveva sviluppato una forma di dipendenza.
“Durante l’esecuzione della risonanza magnetica funzionale, i pazienti sono stati esposti alla visione di immagine di cibi, precedentemente selezionati come preferiti, e hanno eseguito dei test per valutare la reattività verso tali stimoli – continua Luzi – Nel corso della ricerca, ci siamo resi conto che la stimolazione magnetica andava ad agire anche sulla corteccia visiva, riducendo la sua attivazione e di conseguenza, l’attenzione verso il cibo e la sua attrattiva. Questa scoperta, tanto sorprendente quanto affascinante, potrebbe stimolare ulteriori studi sulla regolazione dell’equilibrio fame-sazietà, che nell’obesità risulta alterato, mediante lo studio dell’effetto della TMS su altri sensi, come ad esempio l’olfatto e il gusto”.
“Recentemente, abbiamo fatto anche un ulteriore passo avanti – aggiunge Luzi – I nostri dati preliminari su pazienti con diabete associato ad obesità dimostrano, infatti, che il trattamento con TMS, oltre a ridurre il peso corporeo del 9%, ha l’effetto di ridurre la glicemia e l’emoglobina glicosilata nei pazienti con diabete di tipo 2. Per questo motivo, abbiamo intrapreso un nuovo protocollo sperimentale mirato a dimostrare l’efficacia del trattamento con stimolazione magnetica transcranica nel ridurre la glicemia in pazienti affetti da diabete mellito”.
“L’approccio sarà inizialmente in combinazione con terapia farmacologica antidiabetica standard – conclude il professore – a cui verrà aggiunto il trattamento con TMS, con il quale ci attendiamo una riduzione dell’emoglobina glicosilata di almeno un punto percentuale in 6 mesi”.