Pubblicata su Science la ricerca dell’Università di Padova che introduce un cambiamento di paradigma rispetto allo studio tradizionale
Padova, 14 novembre 2024 – Dai tempi di Darwin piante, animali ed esseri umani sono stati studiati come entità autonome, con la loro fisiologia e la loro vita determinate principalmente dai loro geni. La nuova ricerca pubblicata su Science da titolo “The disciplinary matrix of holobiont biology. Uniting life’s seen and unseen realms guides a conceptual advance in research” propone un cambiamento radicale di paradigma più vantaggioso nello studio degli organismi viventi.
Lo studio è frutto dell’Holobiont Biology Network, un pool scientifico che include docenti di diverse università tra le quali Penn State University, University of Copenhagen, NTNU University Museum, University of Pittsburgh e National University of Colombia. Al team di ricerca internazionale ha partecipato, per l’Università di Padova, la prof.ssa Maria Elena Martino del Dipartimento di Biomedicina Comparata e Alimentazione dell’ateneo patavino.
Per capire la portata di questa nuova prospettiva concettuale è utile rifarsi a due concetti: olobionte e microbioma. L’olobionte è un insieme di un ospite e di molte altre specie che vivono al suo interno o intorno ad esso. Il microbioma è l’insieme del patrimonio genetico e delle interazioni ambientali della totalità dei microrganismi di un ambiente definito. La pubblicazione esplora appunto la biologia degli olobionti vista come un’aggregazione di cellule dell’ospite e di una vasta comunità di microorganismi simbiotici, che vivono in stretta interazione e sinergia.
Questo modello sottolinea l’importanza di studiare e analizzare queste interazioni per comprendere a fondo la vita degli organismi, la salute e l’insorgenza di malattie. In particolare, la ricerca evidenzia come la simbiosi tra ospiti animali e vegetali e i loro microbiomi influisca su funzioni biologiche fondamentali come l’immunità, la crescita, la resistenza ai patogeni e l’adattamento agli stress ambientali. Ad esempio, se l’organismo è un olobionte, il suo genoma sarà un ologenoma, ovvero l’insieme del genoma dell’organismo ospite e del genoma dei microrganismi che lo abitano.
L’ologenoma umano, ossia la combinazione del genoma umano e del microbioma intestinale, si è rivelato in diversi studi scientifici un predittore più efficace rispetto all’analisi del solo genoma umano per diversi tratti, tra cui l’indice di massa corporea, il colesterolo HDL, il rischio di cancro al colon, l’insorgenza di diverse malattie metaboliche, i livelli di glucosio a digiuno, caratteristiche fisiche come la circonferenza dei fianchi e molti altri.
Oggi l’approccio principalmente utilizzato per prevedere l’insorgenza di malattie e valutare lo stato di salute umano e animale è l’analisi del DNA tramite test genetici. Questo metodo si basa sul sequenziamento del genoma per identificare mutazioni o varianti genetiche associate a specifiche patologie. Tuttavia, questo metodo non considera l’aspetto multifattoriale che contribuisce allo sviluppo di malattie e alle condizioni fisiologiche di un organismo, includendo fattori non genetici come l’identità microbica e il ruolo del microbioma.
“La biologia degli olobionti ci permette di capire meglio l’interdipendenza tra l’ospite e il suo microbioma, superando l’approccio tradizionale che studia gli organismi come entità isolate. Questo nuovo paradigma offre una visione innovativa su come la salute e la resilienza degli ecosistemi dipendano da complesse interazioni biologiche – afferma Maria Elena Martino co-autrice dello studio – Questa ottica scientifica apre nuove strade per la conservazione della biodiversità, la salute ambientale e la sostenibilità agro ecologica”.
“Adottare un approccio olistico in medicina umana e animale così come nella salute ambientale, nel mantenimento della biodiversità e nella sostenibilità agroecologica consente di affrontare le problematiche integrando diversi metodi e soluzioni, massimizzandone così l’efficacia. Ad esempio, sul fronte della biodiversità, si stanno sviluppando strategie globali per le barriere coralline – sottolinea Martino – che prevedono la diffusione di batteri probiotici capaci di proteggere i coralli e gli ecosistemi dagli effetti devastanti del cambiamento climatico, contribuendo a invertire il fenomeno dello sbiancamento e la perdita di biodiversità. Questo approccio, che sfrutta il potenziale benefico dei microbiomi, si può applicare quindi a diversi contesti, dalla medicina umana e animale fino all’agricoltura”.
Un aspetto cruciale della pubblicazione è la risposta che si potrebbe dare al “problema dell’ereditarietà mancante”. Quest’ultimo si riferisce alla discrepanza tra l’ereditabilità stimata di alcuni tratti complessi (come altezza, rischio di malattie, ecc.) e la variazione genetica spiegata dalle varianti note. In tali tratti, gli studi genetici spiegano solo una parte della variazione osservata, lasciando una porzione significativa ancora non giustificata dalle varianti genetiche identificate. Tale porzione è in gran parte determinata dal ruolo del microbiota che, interagendo con il genoma ospite e influenzando funzioni fisiologiche importanti, contribuisce significativamente all’ereditarietà di tali tratti.
“Il modello ologenomico che considera congiuntamente il DNA dell’ospite con quello del microbioma – tipologia del genoma ospite, ma anche il tipo e la funzione del suo microbioma – permette di spiegare una maggiore parte della variabilità fenotipica, offrendo una comprensione più approfondita di tratti come la resistenza ai patogeni, l’adattabilità ai cambiamenti climatici e la resilienza a perturbazioni ambientali”.
“Lo studio – conclude Maria Elena Martino – sottolinea inoltre l’importanza di banche dati ologenomiche globali, come l’Earth Hologenome Initiative, che catalogano e standardizzano le informazioni sul genoma combinato di ospiti e microbi. Queste piattaforme rappresentano un’opportunità unica per la ricerca scientifica e per la formulazione di politiche ambientali basate su dati concreti, favorendo una gestione ecosistemica più informata e sostenibile. Questa ricerca segna una pietra miliare nella comprensione della simbiosi e dell’interconnessione della vita sulla Terra”.