Ricercatore dell’Istituto G. Gaslini in collaborazione con Università di Losanna e Università di Harvard identifica nuova malattia avvalendosi delle più recenti tecniche come la riprogrammazione cellulare e lo studio delle alterazioni del gene nello zebrafish. Lo studio pubblicato da “The Journal of Experimental Medicine”
Genova, 27 febbraio 2017 – Stefano Volpi, ricercatore dell’Istituto Giannina Gaslini di Genova, in collaborazione con le Università di Harvard e Losanna dimostra che mutazioni del gene EXTL3 sono all’origine di una nuova sindrome che causa displasia ossea e immunodeficienza.
Lo studio, pubblicato sulla prestigiosa rivista The Journal of Experimental Medicine, ha richiesto un lungo lavoro di indagine compiuto in gran parte grazie alla perseveranza di un giovane ricercatore dell’Istituto Gaslini, il dott. Stefano Volpi, che ha lavorato diversi anni oltre oceano nel laboratorio della prestigiosa Università di Harvard e, a seguire, all’Università di Losanna, dove ha avuto la possibilità di avvalersi di tecniche molto avanzate, come la riprogrammazione cellulare e lo studio delle alterazioni del gene nello zebrafish.
L’idea di iniziare uno studio in questo ambito è nata alcuni anni fa, quando la dottoressa Maja Di Rocco, responsabile dell’Unità Operativa Malattie Rare dell’Istituto Gaslini, ha seguito tra il 2008 e il 2011 due fratellini affetti da una patologia complessa e sconosciuta, caratterizzata principalmente da malformazioni ossee (displasia scheletrica) e immunodeficienza primitiva, cioè un malfunzionamento del sistema immunitario che rende molto suscettibili alle infezioni. Purtroppo i due fratellini sono deceduti nel primo anno di vita per la severità della malattia.
Per cercare di capire la causa della malattia la dottoressa Di Rocco ha discusso il caso con il prof. Andrea Superti-Furga, dell’Università di Losanna, riferimento europeo per le malattie dello scheletro. Escluse le cause note di malattie simili, il prof. Superti-Furga ha studiato l’intero DNA dei pazienti e ha identificato la mutazione in quello che sembrava il gene più probabilmente responsabile della malattia. Per verificare l’ipotesi è stato coinvolto nello studio il prof. Notarangelo, dell’ospedale pediatrico dell’Università di Harvard a Boston, tra i massimi esperti mondiali di immunodeficienze. Quest’ultimo ha incaricato di seguire il progetto di ricerca il dottor Stefano Volpi, suo ricercatore, che proveniva proprio dall’ospedale Gaslini.
“Per trovare la connessione abbiamo usato due approcci innovativi – spiega Volpi – abbiamo riprogrammato le cellule della pelle del paziente facendole diventare cellule staminali (iPS) e da queste abbiamo ricreato in laboratorio le cellule del sistema immunitario, per scoprirne i difetti. In seguito abbiamo studiato il deficit di quel gene in un modello di pesce tropicale – lo zebrafish – che essendo trasparente durante lo sviluppo, permette di vedere gli organi in formazione. Il meccanismo che abbiamo scoperto è il seguente: il gene che non funziona cambia la struttura di alcune proteine coinvolte nei segnali di crescita necessari per il corretto sviluppo delle ossa, dei linfociti e del timo, organo in cui maturano i linfociti. Nei pazienti questi segnali non funzionano più come dovrebbero, e causano un blocco nello sviluppo delle ossa e dei linfociti con conseguente malfunzionamento del sistema immunitario” conclude il dott. Volpi.
“Lo studio ben rappresenta la forza di un ospedale come il Gaslini, dove medici ascoltati e rispettati anche all’estero hanno la volontà e la capacità di coinvolgere i migliori Centri di ricerca al mondo, per sviluppare le loro idee. Al Gaslini ho seguito direttamente i pazienti con le dottoresse Maja Di Rocco e Antonella Buoncompagni. Insieme siamo riusciti ad unire gli sforzi di diversi gruppi internazionali di altissimo livello per raggiungere la diagnosi di una malattia fino ad ora sconosciuta e, una volta diagnosticata, capirne le cause” ha commentato il Direttore Scientifico dell’Istituto G. Gaslini Alberto Martini.
La difficoltà di studi come questo si riflette sia nel numero elevato di gruppi con esperienze complementari reclutati – Genova, Brescia, Losanna, Boston, New York, Toronto, San Francisco, Los Angeles – sia nel tempo richiesto, più di 5 anni di lavoro.
“Giungere alla diagnosi di una malattia genetica permette, anche attraverso il confronto con i casi analoghi descritti nel mondo, di ipotizzare l’evoluzione clinica e di conoscere le terapie efficaci, già sperimentate. Arrivare a capire i meccanismi responsabili della malattia, come tutti gli studi di base, rappresenta un mattone indispensabile per lo sviluppo futuro di nuovi metodi diagnostici e nuove terapie”, così Maja Di Rocco, responsabile dell’Unità Operativa Malattie Rare dell’Istituto Gaslini.
fonte: ufficio stampa