Intervento del Segretario Nazionale Anaao Assomed, Carlo Palermo, alla Conferenza Fnomceo sulla Questione Medica
Roma, 21 aprile 2022 – Negli ultimi 3 anni il Servizio Sanitario Nazionale ha perso quasi 21mila medici specialisti. Dal 2019 al 2021 hanno abbandonato l’ospedale 8.000 camici bianchi per dimissioni volontarie e scadenza del contratto a tempo determinato e 12.645 per pensionamenti, decessi e invalidità al 100%. Questi i risultati di uno studio realizzato dall’Anaao Assomed, frutto dell’elaborazione dei dati CAT e Onaosi.
Anche i medici sono vittime del fenomeno meglio noto con l’espressione “Great Resignation”, il significativo aumento delle dimissioni, che vede un numero crescente di persone in numerosi ambiti lavorativi lasciare il loro impiego. Le cause che portano a questa drastica decisione sono le più svariate: dal burnout, alla ricerca di un posto che preservi il proprio benessere, al desiderio di poter avere la possibilità di gestire le giornate di lavoro difendendo il work-life balance. Complice dell’innesco di questo meccanismo è stata sicuramente la pandemia che ha nettamente peggiorato le condizioni di lavoro negli ospedali.
Il fenomeno delle dimissioni dagli ospedali, con i medici che decidono di abbandonare il tanto ambìto e prestigioso posto a tempo indeterminato in ospedale, è un’evidenza recente. Da sempre un certo numero di medici decide di cambiare lavoro, ma i dati del Conto Annuale del Tesoro (CAT) evidenziano che dal 2017 in tutta Italia si assiste ad una vera e propria esplosione del fenomeno, con un trend in progressivo aumento.
I dati del 2020 e del 2021, tratti dal database Onaosi, confermano il persistere di una quota importante di licenziamenti (da 2.000 a 3.000) che si aggiungono alle uscite per pensionamento: 2.886 medici ospedalieri, il 39% in più rispetto al 2020 ha deciso di lasciare la dipendenza del SSN e proseguire la propria attività professionale altrove.
Cosa cercano? La domanda sarebbe d’obbligo, per chi volesse in qualche modo limitare la fuga, salvare la nave che affonda. Cercano orari più flessibili, maggiore autonomia professionale, minore burocrazia. Cercano un sistema che valorizzi le loro competenze, un lavoro che permetta di dedicare più tempo ai pazienti. Vogliono poter avere a disposizione più tempo anche per la propria vita privata e non sacrificare la famiglia.
Le Aziende sanitarie dovrebbero, quindi, incominciare a dare concrete risposte al disagio crescente che da tempo denunciamo:
- gli orari di lavoro non sono “umani” e le condizioni di lavoro sono insicure anche in riferimento agli utenti;
- la flessibilità nell’organizzazione del lavoro è scarsa, in assenza di innovativi strumenti di welfare aziendale, in particolare considerando il processo di progressiva femminilizzazione della professione;
- gli stipendi non sono in linea con i contratti di lavoro sottoscritti e con le norme di legge;
- non vengono valorizzate le conoscenze e le competenze dei propri professionisti nei processi di “governo clinico” delle attività;
- non sono garantiti per i medici dipendenti percorsi di carriera e opportunità di crescita, esigenze che non si riesce ad accontentare.
Il quadro che emerge lascia presagire il progressivo declino della sanità universalistica, per come la conosciamo. Si deve considerare, infatti, che il livello attuale delle uscite dei medici (pensionamenti + dimissioni volontarie) è tale da mettere seriamente in pericolo la tenuta del SSN visto che di fronte ad uscite di circa 7.000 medici specialisti ogni anno, l’attuale capacità formativa è intorno a 6.000 neo specialisti, di cui in base a nostri precedenti studi solo il 65% accetterebbe un contratto di lavoro con il SSN.
Per evitare il disastro è necessario procedere alla rapida stabilizzazione del precariato e serve un cambiamento radicale nella formazione post-laurea. Occorre, in pratica, anticipare l’incontro tra il mondo della formazione e quello del lavoro, oggi estranei l’uno all’altro, animati da conflittualità latenti o manifeste e contenziosi infiniti, consentendo ai giovani medici specializzandi di raggiungere il massimo della tutela previdenziale e al sistema sanitario di utilizzare le energie più fresche per far fronte ad una importante carenza che si prolungherà ulteriormente per almeno tre anni.
La soluzione consiste nella trasformazione dell’attuale contratto di formazione in un contratto a tempo determinato di formazione/lavoro con oneri previdenziali e accessori a carico delle Regioni e nel conseguente inserimento dei giovani medici nella rete ospedaliera regionale. Recuperare il ruolo professionalizzante degli ospedali rappresenta la strada maestra per garantire insieme il futuro dei giovani medici e quello dei sistemi sanitari.