Serve subito un Fondo Nazionale dedicato alle terapie innovative. Le cure dovrebbero essere estese a più del 40% dei malati. La richiesta alle Istituzioni viene dal 54° Congresso SIR in corso a Rimini. Il presidente Galeazzi: “I risparmi ottenuti in 20 anni con l’uso di queste armi molto potenti consentirebbero di finanziare la nuova fonte di risorse. In Italia le strutture di reumatologia rischiano di sparire. Vanno istituite le reti regionali per collegare ospedali e territorio”
Rimini, 25 novembre 2017 – Più del 40% dei pazienti colpiti da malattie reumatiche gravi in Italia potrebbe trarre beneficio dai farmaci biologici, ma solo il 22% è trattato con queste armi molto potenti. Nel nostro Paese più di 5 milioni di persone vivono con la diagnosi di una di queste patologie che possono portare a invalidità, prospettiva evitabile proprio grazie alle terapie innovative biologiche che negli ultimi 20 anni hanno radicalmente migliorato la qualità di vita di molti pazienti. Ma il nostro Paese è terzultimo in Europa nella prescrizione di queste cure, davanti solo a Grecia e Portogallo.
Per garantire a tutti i malati i migliori trattamenti, la SIR (Società Italiana di Reumatologia) chiede alle Istituzioni la creazione di un Fondo Nazionale per i farmaci biologici in reumatologia. Accanto a questa fonte di risorse dovrebbero essere realizzate quanto prima le reti assistenziali reumatologiche in tutte le Regioni, con la piena applicazione dei piani diagnostico-terapeutici assistenziali (PDTA).
Le richieste vengono dal 54° Congresso SIR in corso a Rimini. “Solo così possiamo salvare la reumatologia che rischia di sparire nel nostro Paese – spiega il prof. Mauro Galeazzi, Presidente Nazionale SIR – Una situazione molto grave che si sta già verificando in alcune zone, in cui mancano del tutto le strutture reumatologiche. La prescrizione dei farmaci biologici solo nella metà dei pazienti che ne avrebbero effettivo bisogno è la conseguenza di scelte locali e nazionali sbagliate e anacronistiche. Ad esempio in Toscana una delibera impone ai clinici la scelta del farmaco biosimilare, meno caro rispetto al biologico. Ma non è questa la via da seguire per ottenere risparmi. I biosimilari infatti non dovrebbero essere utilizzati nei malati che hanno già iniziato il trattamento con gli originator perché non è accertato che funzionino allo stesso modo in persone che stanno già assumendo, con successo, una cura diversa. Le terapie biologiche rappresentano un investimento, non una spesa inutile”.
Introdotte circa 20 anni fa, hanno permesso di allungare la sopravvivenza di almeno un decennio ad esempio in pazienti colpiti da artrite reumatoide. “Devono però essere prescritte in fase precoce, non quando si è prodotto il danno, perché in questi casi è inevitabile un’invalidità irreversibile – continua il prof. Galeazzi – Sono circa 10 i farmaci biologici disponibili, un’altra decina è in arrivo a breve. Grazie all’introduzione di queste terapie, i pazienti trattati non devono più essere ricoverati in ospedale. Basti pensare che una degenza costa circa 1.000 euro al giorno: un ricovero di 10 giorni ha lo stesso impatto economico di una terapia biologica per un anno. In un ventennio abbiamo risparmiato così tante risorse in termini di mancate ospedalizzazioni che se fossero indirizzate alle malattie reumatiche potremmo finanziare il nuovo Fondo. L’innovazione rappresenta un buon investimento se erogata in un contesto organizzativo adeguato. Per questo, oltre al Fondo, chiediamo che vengano istituite quanto prima anche le Reti reumatologiche regionali”.
“La mancanza di adeguati servizi distribuiti sul territorio implica liste di attesa fino a 6 mesi per le visite e ricoveri spesso inappropriati – afferma il prof. Luigi Sinigaglia, presidente eletto SIR – Talvolta siamo costretti a trattare in ospedale patologie come l’artrosi del ginocchio che dovrebbero competere al territorio. Questo problema è dovuto alla mancanza di reti reumatologiche regionali in grado di collegare il territorio e l’ospedale, assicurando così diagnosi precoci e garantendo trattamenti appropriati e tempestivi. Queste reti non sono mai state realizzate nella maggioranza delle Regioni, sono presenti a macchia di leopardo solo in alcune realtà virtuose (Lombardia, Veneto e Puglia) dove sono state organizzate in modo anarchico. Dovrebbero invece essere create in base a criteri fondamentali condivisi, con strutture di primo, secondo e terzo tipo. È il cosiddetto ‘chronic care model’”.
Quella di primo tipo è la struttura ambulatoriale periferica da attivare nelle case della salute, nei distretti vicino al domicilio dei pazienti, con il reumatologo presente 2-3 volte a settimana. La struttura intermedia è il day hospital senza posti letto (dove vengono erogati servizi di tipo diagnostico ambulatoriale). La struttura di terzo tipo è il centro ad alta specializzazione con le degenze riservate ai malati più gravi.
“In Sicilia – sottolinea il prof. Galeazzi – il consiglio regionale quattro anni fa approvò un esemplare modello di rete ma, ad aprile 2017, il nuovo piano sanitario regionale ha cancellato sia la rete che tutte le reumatologie dell’isola. Un problema drammatico per i pazienti che la SIR ha sollevato e portato all’attenzione delle Istituzioni. E oggi c’è un progetto di reinserimento di questa rete che rappresentava un modello virtuoso”.
Queste malattie hanno un forte impatto economico e sociale. Sono circa 23.000.000 le giornate di lavoro in Italia perse annualmente per tre malattie reumatiche invalidanti: l’artrite reumatoide, l’artrite psoriasica e la spondilite anchilosante. Per queste condizioni il Servizio Sanitario Nazionale sopporta solo il 30% del costo della malattia (corrispondente ai costi diretti), il rimanente 70% è rappresentato dai costi indiretti, in particolare dalla perdita di produttività delle persone colpite.
“Dolore, fatica, depressione, danno progressivo con conseguente disabilità, riduzione della qualità e dell’aspettativa di vita sono le conseguenze frequenti di queste patologie se non trattate in modo tempestivo con una terapia adeguata – spiega il prof. Luigi Di Matteo, vice presidente SIR – Nel 10% dei casi si registra uno stato di invalidità lavorativa totale e permanente dopo solo due anni dall’insorgenza, nel 30% dopo cinque anni e nel 50% dopo dieci anni. La progressione delle malattie reumatiche, se non opportunamente controllata e contrastata, incide pesantemente e in maniera progressiva sulla qualità di vita, sulla frequenza dei ricoveri e sulla produttività. Le patologie reumatiche invalidanti colpiscono nella maggioranza dei casi pazienti giovani, prima dei 40 anni, nel pieno dell’attività professionale: questi cittadini sono in grado di svolgere il proprio lavoro solo nei primi 7 anni dall’esordio della malattia e, oltre la metà delle persone, nei primi 12 mesi di malattia, è costretto ad assentarsi dal lavoro mediamente per 31 giorni. La somministrazione di una terapia adeguata impatta positivamente sulla qualità di vita al punto che, con il passare del tempo, le assenze si riducono fino ad una media di 17 giorni”.
In generale le malattie reumatiche sono oggi in Italia la causa del 50% delle assenze dal lavoro superiori a tre giorni, del 60% dei casi di inabilità al lavoro e di più del 25% delle pensioni di invalidità erogate dallo Stato. Non solo. Nel nostro Paese il 24,1% dei pazienti con artrite reumatoide vive in una condizione di disabilità grave contro il 10% dell’Olanda, l’8,7% dell’Irlanda e il 3,9% della Francia.
“Un più ampio utilizzo dei farmaci biologici – sottolinea il prof. Galeazzi – se da un lato incrementerebbe i costi diretti sanitari, dall’altro porterebbe a una contrazione della spesa relativa ai costi diretti non sanitari (l’assistenza informale) e ai costi indiretti con evidenti risparmi sia per i pazienti che per il Servizio Sanitario Nazionale. Lo scopo del trattamento farmacologico è raggiungere uno stato di completa remissione o di bassa attività di malattia, obiettivo che si riesce a ottenere nella maggioranza dei casi. La vera svolta in termini di risparmi potrebbe essere ottenuta unendo i due silos economici, quello della spesa sanitaria e sociale in campo reumatologico. In questo modo potrebbe essere realizzato un unico piano socio-sanitario”.
I farmaci biologici interferiscono con le citochine, sostanze prodotte dal sistema immunitario. Nell’artrite reumatoide, così come in altre patologie infiammatorie croniche, esiste uno squilibrio tra le citochine ad attività anti-infiammatoria e quelle ad azione infiammatoria, a favore di queste ultime. I farmaci biologici agiscono bloccando l’attività delle citochine ad azione infiammatoria.
“In un’ottica di approccio integrato all’assistenza di pazienti reumatici cronici, socialmente fragili e tendenti alla disabilità – continua la prof.ssa Marta Mosca, consigliere della FIRA ONLUS, la Fondazione Italiana per la Ricerca sull’Artrite creata su impulso della SIR nel 2006 – svolgono un ruolo di primo piano i medici di medicina generale, il cui compito è collaborare con il reumatologo all’indispensabile attività di monitoraggio clinico dei pazienti. È infatti cruciale individuare al più presto segni o sintomi indicativi di una eventuale ripresa della malattia”.