Studiate per la prima volta le dinamiche di formazione di aggregati eterogenei di huntingtina, la proteina responsabile della malattia di Huntington, la cui versione mutata è in grado infettare anche la versione normale. La ricerca, realizzata combinando modelli computazionali ed esperimenti biologici, è stata pubblicata su Scientific Reports
Milano, 23 maggio 2019 – Gli aggregati di proteine responsabili della malattia di Huntington hanno alcuni punti deboli, che potrebbero essere sfruttati per ostacolare lo sviluppo di questa malattia. È quanto emerge da uno studio pubblicato su Scientific Reports da un gruppo di ricercatori del Centro della Complessità e i Biosistemi (CC&B) dell’Università degli Studi di Milano coordinato da Caterina La Porta, docente di Patologia Generale della Statale, in collaborazione con la Penn University negli Stati Uniti.
La malattia di Huntington è una malattia genetica neurodegenerativa legata alla struttura di una proteina coinvolta in molti processi cellulari (indipendenti dalla malattia), chiamata huntingtina. Nelle persone affette da questa patologia, una mutazione genetica provoca la produzione di una versione mutata della huntingtina che tende a formare aggregati – simili a quelli di altre malattie neurodegenerative – i quali, nel corso del tempo, interferiscono in maniera sempre più grave con la trasmissione dei segnali e quindi con le funzioni cerebrali.
Come se non bastasse, l’huntingtina mutata può anche avere effetti tossici su diversi processi cellulari, provocando la morte dei neuroni colpiti.
Studi recenti hanno mostrato che nel morbo di Parkinson e in quello di Alzheimer la formazione di questi letali aggregati proteici non avviene soltanto nei neuroni colpiti ma può propagarsi anche ad altre cellule, con un meccanismo simile a quello dei prioni, i responsabili del morbo della mucca pazza: queste proteine mutate possono costringere le loro versioni normali a cambiare conformazione, assumendo quella mutata.
Si tratta, in pratica, di proteine in grado di ‘infettare’ le loro simili. Recentemente si è dimostrato che anche nella malattia di Huntington avviene un fenomeno di questo tipo, ma le dinamiche di formazione di aggregati eterogenei – formati cioè da un misto di huntingtina mutata e huntingtina normale – non erano mai state studiate, visto che la maggior parte della ricerca si era concentrata sugli aggregati omogenei della sola huntingtina mutata.
I ricercatori hanno sfruttato il loro consolidato approccio multidisciplinare per studiare la formazione di aggregati eterogenei di huntingtina, combinando modelli computazionali ed esperimenti biologici. Come prima cosa, hanno utilizzato un tipo particolare di simulazione computazionale che consente di indagare le strutture proteiche e le loro possibili interazioni.
Così facendo, hanno identificato un probabile meccanismo di aggregazione tramite il quale una singola proteina mutante può legarsi a proteine normali, e individuato alcuni degli elementi strutturali dell’huntingtina che innescano il processo di aggregazione.
Il passo successivo è stata la verifica in laboratorio dei risultati del modello computazionale; per fare ciò hanno aggiunto l’huntingtina mutata a cellule in colture dotate solo dell’huntingtina normale e, grazie a specifiche tecniche di microscopia avanzata, hanno confermato che i due diversi tipi di proteina si aggregano.
“Una volta identificate le configurazioni molecolari caratteristiche degli aggregati – spiega Silvia Bonfanti, primo autore del lavoro – è stato possibile capire quali fossero i bersagli molecolari più promettenti per destabilizzare gli aggregati”.
“L’individuazione di questi possibili punti deboli strutturali negli aggregati tossici di huntingtina potrebbe consentire lo sviluppo di farmaci in grado di inibirne la formazione, o perlomeno rallentarla, intralciando quindi lo sviluppo della malattia”, conclude Caterina La Porta.