Le nostre radici latine hanno determinato un’attitudine secondo la quale il sofferente, affetto da disturbi di diversa natura, richieda solitamente al sanitario di occuparsi della malattia e non del suo dolore. Sembrerebbe che esista, in altri termini, una sorta di timore psicologico che spinge il paziente a non dichiarare il proprio dolore per il timore che possa rappresentare il sintomo dell’irreversibilità della malattia.
Molti individui, a causa di una tradizione cattolica cristiana, vivono l’esperienza del dolore come un “valore religioso”, dunque come un “dato personale”, che esclude l’intervento diretto del sanitario.
A parere dei terapisti del dolore, questo atteggiamento, che trae origine da un portato antropologico-culturale, si somma ai problemi riguardanti la prescrizione e la gestione della terapia.
Torniamo al senso del dolore. Alcuni ritengono che la sofferenza abbia un suo valore e che possa rendere migliori, altri invece che ne sia priva e che spinga a essere peggiori.
In questa diversità di pareri un dato tuttavia rimane costante: il dolore è insostituibile, così come lo è la morte, di cui il dolore è essenzialmente un’anticipazione.
L’esperienza del dolore, nelle sue varie forme, rappresenta di certo un ripiegamento dell’espansività della vita.
Esso avvisa dell’ineludibilità e della finitezza dell’esistenza, per cui spesso non si soffre solo per un male fisico o psichico ma per quel senso di premonizione che il dolore porta con sé.
Patire significa subire, eppure rinvia all’attesa del paziente, il quale, benché attenda la propria guarigione, vive nella consapevolezza di non poter sottrarsi alla propria sorte. Di qui la visione occidentale latina, o meglio giudaico-cristiana, secondo la quale il dolore è strettamente legato a una colpa che va riparata.
L’esperienza della sofferenza rappresenta in quest’ottica un evento purificatore che conduce alla redenzione e alla salvezza.
Diversa è invece la visione orientale, secondo la quale il dolore esprime i limiti dell’esistenza ma non possiede una sua realtà, rimanendo un dato apparente, verso il quale occorre assumere una posizione e un’analisi corretta.
Il dolore dunque non è solo sofferenza o “figlio dell’errore e della follia della mente” come diceva Eschilo, ma espressione profonda della nostra visione del mondo.