Team di ricercatori padovani svela come l’esposizione a etichette linguistiche durante l’infanzia modula l’architettura neurale nella percezione di volti di diverse etnie
Padova, 2 dicembre 2019 – Nell’arco dello sviluppo, in una società sempre più multiculturale, il bambino viene in contatto con molti volti appartenenti a etnie diverse. Sappiamo già da tempo che la capacità di orientarsi verso i volti e di coglierne le differenze è una capacità già presente nelle primissime fasi della vita.
Ma come vengono categorizzati questi volti a partire dalle loro differenze? Quali meccanismi neurali permettono di identificare un volto come appartenente alla propria etnia? Qual è l’influenza dell’educazione nell’incontro di culture diverse a partire dalla semplice percezione di un volto e dalle etichette linguistiche che usiamo per definirlo?
Rispondere a queste domande può aiutare a comprendere le modalità di inclusione ed esclusione che possono derivare anche dal semplice linguaggio che usiamo.
Il lavoro di ricerca pubblicato sulla prestigiosa rivista Scientific Reports è il risultato di una fruttuosa collaborazione tra due Dipartimenti di Psicologia dell’Università di Padova (Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo e di Psicologia Generale) che include lo studio dello sviluppo mentale e quello delle basi neurali sottostanti quali aspetti indissolubili per comprendere lo sviluppo del comportamento umano.
Questo studio ha coinvolto circa 50 partecipanti, tra adulti e bambini in età prescolare (dai 3 ai 5 anni di età), ai quali sono stati ripetutamente presentati coppie di volti raffiguranti diverse etnie (asiatica e caucasica). Al fine di rendere piacevole l’esperimento a tutti i partecipanti è stato chiesto di guardare un cartone animato al centro di uno schermo mentre delle immagini di volti venivano presentati lateralmente (Fig. 1).
I volti potevano raffigurare persone della stessa etnia (es, entrambi caucasici o entrambi asiatici) oppure essere volti modificati attraverso una tecnica nota come “morphing” in maniera tale che, in un caso, essi raffigurassero persone con caratteristiche somatiche diverse ma ancora identificabili come appartenenti alla stessa etnia. In un altro caso, i volti raffiguravano persone con caratteristiche somatiche chiaramente riconducibili ad un’altra etnia.
Durante l’esperimento i ricercatori hanno monitorato l’attività cerebrale attraverso una tecnica nota come elettroencefalografia ad alta risoluzione spaziale che ha permesso di studiare come l’attività neurale cambiava in funzione del tipo di volto presentato. I risultati mettono in evidenza chiaramente come in entrambi i gruppi il cervello sia in grado di riconoscere facilmente e molto velocemente (in circa 400 millisecondi) a quale categoria etnica appartenessero i volti.
“La scoperta più interessante dello studio – dice la prof.ssa Teresa Farroni, autore dello studio – consiste nel fatto che questa capacità va di pari passo con l’esperienza linguistica dei bambini. In particolare, maggiore è l’utilizzo di etichette linguistiche multiculturali da parte dei genitori (es, le parole ‘bianco’, ‘nero’ ecc. in relazione alle altre persone con cui i bambini entrano in contatto ecc.) maggiore è la capacità del cervello di distinguere le categorie etniche dei volti”.
Lo studio ha inoltre evidenziato importanti differenze evolutive nei network cerebrali alla base di questa capacità. “Nonostante sia adulti che bambini siano in grado di categorizzare correttamente l’appartenenza etnica dei volti – spiega il dott. Giovanni Mento, co-autore dello studio – abbiamo osservato importanti differenze evolutive. In particolare, i bambini hanno bisogno di attivare molte più aree cerebrali per svolgere lo stesso compito rispetto agli adulti e attivano una parte ristretta delle aree linguistiche dell’emisfero sinistro”.
Questi risultati hanno importanti implicazioni teoriche ed educative. Da un lato confermano che il cervello è un sistema estremamente plastico che reagisce al tipo di stimoli ambientali ri-organizzandosi e specializzandosi in funzione dell’ambiente, un’ipotesi nota in letteratura come neurocostruttivismo.
Dall’altro lato dimostra che, tra gli stimoli importanti per lo sviluppo mentale, la ricchezza e l’inclusività del vocabolario con cui ci rivolgiamo ai bambini cambia la loro percezione del mondo, aiutandoli a distinguere le differenze tra i volti, condizione essenziale per riconoscere “l’altro” e predisporre l’interazione sociale.