La materia oscura vista attraverso una foresta

Un nuovo articolo su JCAP esamina la distribuzione della materia nell’universo e supporta l’esistenza di un’influenza sconosciuta o di una nuova particella

Trieste, 26 luglio 2024 – La Foresta Lyman-Alpha è un potente strumento per mappare la distribuzione dell’idrogeno nell’universo e, in maniera indiretta, della materia oscura. M.A. Fernandez, Simeon Bird e Ming-Feng Ho, astrofisici dell’Università della California, Riverside, utilizzando un nuovo modello e simulazioni per ricostruire la distribuzione della materia, inclusa la materia oscura, su una vasta porzione dell’universo, hanno analizzato questa “foresta”, così chiamata perché nei grafici appare davvero come un groviglio denso di “fusti”.

Il nuovo studio, appena pubblicato sul Journal of Cosmology and Astroparticle Physics (JCAP), non solo amplia la conoscenza sulla struttura del cosmo e testa una nuova metodologia, ma – confermando la validità di una “tensione”, o discrepanza tra osservazioni e previsioni teoriche sull’universo – suggerisce la possibile esistenza di una particella mai osservata prima.

I fitti picchi che si osservano nel grafico di distribuzione delle lunghezze d’onda di una Foresta Lyman-Alpha assomigliano davvero a molti piccoli alberi. Ciascuno di questi picchi rappresenta un calo improvviso della “luce” a una lunghezza d’onda specifica e ristretta, che corrispondono di fatto a una mappa della materia che la luce ha incontrato nel suo viaggio verso di noi.

È un po’ come nelle ombre cinesi, dove indoviniamo il personaggio posto tra la luce e lo schermo basandoci sulla sua silhouette. L’“ombra” delle molecole di idrogeno, sospese a grandi distanze tra noi e la luce proiettata da sorgenti luminose intense ancora più lontane, per gli astrofisici è ben riconoscibile. Le immagini utilizzate si chiamano spettrogrammi e sono scomposizioni della radiazione, che per semplicità chiameremo luce, ma che includono anche frequenze che i nostri occhi non possono vedere, nelle bande di lunghezza d’onda che la compongono.

“È come una sorta di arcobaleno molto dettagliato”, spiega Simeon Bird, fisico all’UC Riverside e uno degli autori dello studio. Vediamo un arcobaleno quando la luce solare passa attraverso un prisma (o una goccia d’acqua) e viene scomposta nei suoi ‘ingredienti’, le lunghezze d’onda che mescolate insieme appaiono come luce bianca.

Negli spettrogrammi della luce proveniente da sorgenti cosmiche come i quasar, accade la stessa cosa, solo che quasi sempre mancano alcune frequenze, visibili come bande nere dove la luce è assente, come se qualcosa avesse proiettato un’ombra. Questo ‘qualcosa’ sono gli atomi e le molecole che la luce ha incontrato lungo il percorso. Poiché ogni tipo di atomo ha un modo specifico di assorbire la luce, lasciando una sorta di firma nello spettrogramma, è possibile tracciare la loro presenza, soprattutto quella dell’idrogeno, l’elemento più abbondante nell’universo.

“L’idrogeno è utile perché funziona da tracciante per la materia oscura”, spiega Bird. La materia oscura è una delle grandi sfide degli studi attuali dell’universo: non sappiamo ancora cosa sia e non l’abbiamo mai vista, ma siamo certi che esiste in grande abbondanza, più della materia normale. Bird e i suoi colleghi hanno usato l’idrogeno per tracciarla indirettamente.

“È come mettere del colorante in un flusso d’acqua: il colorante seguirà il flusso dell’acqua. La materia oscura esercita gravita su se stessa e sulla materia ordinaria. Il gas di idrogeno ci cade letteralmente dentro, quindi rivela la materia oscura. Dove è più denso c’è più materia oscura. Si può pensare all’idrogeno come al colorante e alla materia oscura come all’acqua”, prosegue Bird.

Il lavoro di Bird e colleghi in realtà fa ben più che semplicemente monitorare la materia oscura. Negli studi attuali sul cosmo, esistono quelle che vengono chiamate “tensioni”, ovvero discrepanze tra osservazioni e previsioni teoriche. È come aprire una lattina di pomodori pelati e trovarci dentro delle biglie di vetro: in base alle nostre assunzioni su come funziona il mondo, ci aspetteremmo una cosa, ma sorprendentemente, i fatti ci contraddicono. Il nostro buon senso è l’equivalente dei modelli teorici in fisica: portano a previsioni sul contenuto, ma poi uno guarda nella lattina e rimane sbalordito.

Quando succedono queste sorprese, due sono le cose che potrebbero essere accadute: 1) abbiamo problemi di vista e quelli sono davvero pomodori, o 2) la nostra base di conoscenza è sbagliata (forse ci troviamo  in un paese straniero e abbiamo letto male l’etichetta sulla lattina). Qualcosa di simile accade negli studi sulla fisica dell’universo. “Una delle tensioni attuali riguarda la quantità di galassie su piccola scala e a bassi redshift”, spiega Bird. L’universo a basso redshift è quello relativamente vicino a noi.

“Le ipotesi attuali per spiegare la discrepanza tra osservazioni e aspettative sono due: che esista una particella mai vista prima di cui non sappiamo nulla, o che stia accadendo qualcosa di strano con i buchi neri supermassicci all’interno delle galassie. I buchi neri stanno in qualche modo frenando la crescita delle galassie, alterando così i nostri calcoli strutturali”.

Il lavoro di Bird e colleghi ha confermato la validità della tensione (quindi sono davvero biglie e non pomodori). Ha però anche fatto qualcosa di più. “La significatività statistica di questa rilevazione è ancora piuttosto contenuta, quindi non è ancora completamente convincente. Ma se si confermerà con nuovi dati, allora è molto più probabile che dipenda da una nuova particella o da qualche nuovo tipo di fisica, piuttosto che dipendere da un effetto di buchi neri che alterano i nostri calcoli”, conclude Bird.

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