Uno studio mostra come l’invecchiamento attivo sia responsabile del 30% delle disuguaglianze in termini di salute negli over-65. Lo studio condotto nell’ambito del progetto di ricerca europeo CREW finanziato in parte dalla Iniziativa di Programmazione Congiunta Europea More Years, Better Lives. La Jpi si è riunita questa settimana a Bruxelles in occasione della conferenza “Increasing the Knowledge Base on Demographic Change” in collaborazione con l’Università Cattolica, sede di Roma
Roma, 17 febbraio 2018 – Lavoro, volontariato, cura dei nipoti e altre attività fanno bene alla salute degli anziani. Infatti, si sentono e sono oggettivamente più sani gli anziani attivi rispetto ai coetanei che lo sono meno, specie se all’invecchiamento attivo si associa anche un buon livello di istruzione. Le differenze di salute tra anziani più o meno attivi possono essere anche molto ampie: l’invecchiamento attivo, quindi, è responsabile del 30% di queste differenze.
È il risultato di uno studio condotto da Bruno Arpino del Dipartimento di Scienze politiche e Sociali della Universitat Pomepu Fabra (UPF) a Barcellona nell’ambito del progetto di ricerca europeo intitolato CREW e cofinanziato dalla Join Program Initiative More Years Better Lives, in collaborazione con l’Università Cattolica, sede di Roma – professor Paolo Maria Rossini – riunitasi questa settimana a Bruxelles in occasione della conferenza “Aumentare la base di conoscenza sul cambiamento demografico”, tenutasi il 13 febbraio.
Il progetto CREW riguarda quattro grandi temi. “In primo luogo – spiega il professor Arpino – analizzeremo i fattori che influenzano il benessere della popolazione anziana nella sua multidimensionalità, considerando sia aspetti legati alla salute fisica o mentale, sia al benessere soggettivo, alle percezioni soggettive sul proprio stato di invecchiamento e alla situazione economica. In secondo luogo, studieremo in che misura prendersi cura degli altri (nipoti, genitori, coniuge, ecc.) – un’attività molto frequente soprattutto in alcuni paesi e tra le donne – incide sul benessere e le decisioni lavorative. In terzo luogo, analizzeremo le sfide poste ai sistemi pensionistici come conseguenza di cambiamenti nelle dinamiche familiari e nel mercato del lavoro. In particolare, studieremo come garantire sistemi pensionistici equi e stabili”.
“Infine – continua il professor Arpino – esamineremo la popolazione di anziani senza parenti stretti, le sue caratteristiche e condizioni di salute”. In ogni tema trattato, si terrà conto degli aspetti di genere e dell’influenza del contesto politico e culturale”.
Lo studio sull’invecchiamento attivo, apparso sul Journal of Aging and Health, analizza le diseguaglianza in salute tra persone anziane con livello di istruzione differente, utilizzando tre misure differenti (percezione soggettiva dello stato di salute complessivo, depressione, limitazioni fisiche).
Era già noto che diseguaglianze di salute esistono in relazione allo stato socio-economico degli anziani.
“L’ipotesi fondamentale che abbiamo voluto testare – spiega l’esperto – è se queste diseguaglianze (o parte di esse) possono essere spiegate dal diverso grado di invecchiamento ‘attivo’ degli anziani, cioè il livello individuale di partecipazione ad attività quali lavoro pagato, volontariato, attività sociali e cura dei nipoti. Abbiamo trovato che per alcuni indicatori di salute fino al 30% delle diseguaglianze possono essere spiegate dal diverso grado di ‘active ageing’ e che anziani con più elevato grado di istruzione tendono a essere più attivi”.
Il contributo è sostanziale se si ci riferisce alla partecipazione al mercato del lavoro e alle attività di volontariato e sociali, mentre è marginale per l’attività di cura dei nipoti. Questo non vuol dire che quest’ultima attività non sia rilevante ai fini dell’active ageing, ma semplicemente che non contribuisce a spiegare le diseguaglianze socio-economiche in termini di salute.
Pur essendo difficile stabilire in via definitiva l’esistenza di un nesso di causa-effetto tra l’abitudine a svolgere diverse attività e la garanzia di una vecchiaia in salute, “questo studio – conclude il professor Arpino – è stato realizzato proprio per scartare la possibilità di una causalità inversa (ovvero gli anziani più sani tendono ad essere più attivi proprio in virtù del loro stato di salute): infatti, abbiamo utilizzato dati longitudinali, ossia abbiamo misurato le condizioni di salute dei partecipanti e la loro partecipazione ad attività all’inizio dello studio e abbiamo visto come l’abitudine a svolgere attività di vario genere inizialmente si associava a un migliore stato di salute due anni dopo”.