Al congresso della European Society of Cardiology – ESC presentato lo studio DUBIUS. La Cardiologia Interventistica italiana (GISE) si distingue a livello internazionale per una sperimentazione clinica in grado di influenzare le pratiche di trattamento dell’infarto
Roma, 31 agosto 2020 – “Con lo studio DUBIUS la ricerca italiana fa scuola a livello mondiale e ridefinisce nuovi standard di trattamento e prognostici della forma più frequente d’infarto, quella in cui l’arteria non è completamente ostruita (NSTEMI). Abbiamo dimostrato che una strategia invasiva, entro le 24 ore dall’evento e con approccio radiale (dal polso) incide sui risultati più di quanto faccia la tempistica della terapia farmacologica e rende superflua l’annosa discussione sulla necessità di un trattamento antiaggregante a monte (tutti i pazienti) o a valle (trattamento selettivo) della rivascolarizzazione. In Italia ogni anno sono colpite da infarto subendocardico 80.000 persone, di queste 52.000 vengono sottoposte a stent coronarico”.
Così il Presidente del GISE (Società Italiana di Cardiologia Interventistica) e Investigatore principale Giuseppe Tarantini commenta la presentazione, avvenuta oggi in sessione plenaria, dello studio scientifico late breaking DUBIUS al congresso online della Società Europea di Cardiologia, che si chiude domani.
Lo studio spontaneo e indipendente, iniziato nel 2015, è stato valutato e autorizzato da AIFA, patrocinato e finanziato dal GISE e condotto, sotto la guida di Giuseppe Tarantini (Direttore Cardiologia Interventistica | Università di Padova) e di Giuseppe Musumeci (Direttore Cardiologia, Ospedale Mauriziano di Torino), in 30 centri d’eccellenza, distribuiti in tutta Italia. Il DUBIUS è stato simultaneamente pubblicato su JACC, Journal of the American College of Cardiology, la più importante rivista mondiale di cardiologia. “Volevamo individuare – spiega Tarantini – la strategia di trattamento farmacologico più efficace e sicura nelle fasi che precedono la coronarografia, l’angioplastica coronarica e il bypass aorto-coronarico. Era necessario valutare in modo rigoroso le implicazioni cliniche dell’approccio farmacologico più comunemente utilizzato, il cosiddetto pretrattamento che viene applicato a tutti i pazienti fin dal primo sospetto diagnostico di infarto. Il DUBIUS lo ha confrontato con una strategia selettiva, basata sulla somministrazione di un antiaggregante solo dopo la certezza della diagnosi ottenuta dalla coronarografia”.
“L’attuale pratica clinica italiana, con coronarografia effettuata entro 24 ore dall’infarto NSTEMI ed eseguita da accesso radiale – annuncia il co-Investigatore principale Giuseppe Musumeci – ha garantito eccellenti risultati in entrambi i gruppi di studio, che hanno reso di fatto superfluo un ulteriore confronto tra le due strategie di trattamento farmacologico antiaggregante, nessuna delle quali può essere raccomandata come approccio routinario. Piuttosto, vi deve essere un percorso personalizzato che individui la migliore strategia per il singolo paziente. Con i risultati del DUBIUS potremo evitare a circa 80.000 pazienti l’anno una somministrazione a tappeto di potenti antiaggreganti prima della coronarografia, con una riduzione di potenziali effetti collaterali e notevoli ricadute sull’appropriatezza delle cure. Pensiamo a chi, in corso di infarto NSTEMI deve sottoporsi a bypass coronarico (circa 6%) o a quelli che dopo la coronarografia non hanno confermata la diagnosi d’infarto, ben il 15%. Al momento i tempi di attesa nel caso di bypass, per chi ha avuto un precedente trattamento antiaggregante sono di 5-7 giorni. Giornate che il paziente trascorre in ospedale, aumentando rischi di complicanze e costi di gestione. Tempi che, se il paziente non è stato pretrattato, possono essere quasi azzerati. Nell’era Covid-19 un risultato ancora più prezioso per la pratica clinica”.
“Uno studio lungo e complesso che ha coinvolto inizialmente oltre 2.500 pazienti – racconta il coordinatore della ricerca Marco Mojoli (cardiologo emodinamista dell’Ospedale Civile di Pordenone) – I pazienti arruolati nel DUBIUS sono stati assegnati casualmente, in base alla sequenza generata da un computer, a una delle due strategie (pretrattamento o assenza di pretrattamento). Il lavoro ha dimostrato un’incidenza di eventi avversi gravi (morte, infarto, ictus, sanguinamento) entro 30 giorni dall’arruolamento molto bassa (3%) e numericamente sovrapponibile nei due gruppi di studio. Inoltre, abbiamo osservato che il 99% dei pazienti è stato sottoposto a coronarografia, eseguita in oltre il 95% dei casi tramite un’arteria del polso – in linea con la migliore pratica clinica italiana – e non dall’inguine. Nel 75% dei casi la procedura è stata eseguita entro circa 1 giorno dal ricovero. Il 72% dei malati nel corso dell’esame è stato sottoposto a un’angioplastica. Una minoranza di casi (6%) ha richiesto l’esecuzione di un intervento cardiochirurgico di bypass aorto-coronarico. In quasi 1 paziente su 5, non è stata necessaria una procedura di rivascolarizzazione e in 1 su 10 il sospetto diagnostico iniziale di infarto non è stato confermato”.
“A distanza di circa 20 anni dal celebre studio GISSI – afferma Tarantini – la Cardiologia Interventistica italiana (GISE) si distingue a livello internazionale per una sperimentazione clinica in grado di influenzare le pratiche di trattamento dell’infarto. I risultati del DUBIUS contribuiscono a mettere la parola fine all’interrogativo che da sempre è motivo di dibattito nel mondo della cardiologia sull’opportunità di somministrazione di antiaggreganti prima o dopo la conferma della diagnosi con la coronarografia. Si tratta di un’indagine destinata a rivoluzionare gli standard di trattamento e prognosi rispetto a tutti i precedenti studi internazionali e che potrà avere importanti ricadute, considerato che ogni anno nel mondo si registrano 15 milioni di infarti e 7 milioni di morti per malattie delle coronarie, principalmente legate a attacco cardiaco. Il DUBIUS ci dice anche, forte e chiaro, che sull’infarto l’Italia è best in class, con risultati che riducono gli eventi avversi a meno della metà rispetto al resto del mondo: 2 su 100 trattati contro i 7 a livello globale. E ci rivela inoltre che la ricerca e la pratica clinica nel nostro Paese sono davvero in ottima salute, forse migliore di quanto a volte siamo portati a pensare. Questo studio conferma che il farmaco senza strategia medica non basta, a volte non serve e ogni tanto è dannoso. La terapia vincente rimane il dottore e non il blister”.
Importante il coinvolgimento dell’Università di Padova nella ricerca. “Gli sperimentatori hanno deciso di concludere lo studio per Futility essendo evidente l’assenza di un chiaro beneficio di una delle due strategie rispetto all’altra – conclude il responsabile del Servizio di Clinical Trial e Biometria dell’Università di Padova Dario Gregori che si è occupato del coordinamento biostatistico e di monitoraggio – Il lavoro è stato concepito con un moderno disegno di tipo ‘adattivo’, che consente di valutare in diversi momenti l’eventuale necessità di incremento o riduzione del numero di pazienti necessari alla sperimentazione. In virtù di tale disegno, a maggio 2020 è stata eseguita un’analisi statistica intermedia che ci ha indotto a concludere la sperimentazione dopo 1.449 pazienti arruolati. Per trovare scostamenti significativi dai risultati ottenuti, avremmo dovuto coinvolgerne altri 50.000”.