È quanto auspica la dott.ssa Maria Rita Zambuto, dirigente presso l’azienda ospedaliera San Camillo Forlanini di Roma, che ha rilasciato questa intervista alla vigilia del Congresso Nazionale delle donne in neurochirurgia che si svolgerà l’11 dicembre a Reggio Emilia, presso l’Arcispedale Santa Maria Nuova
Roma, 9 dicembre 2015
Dottoressa Zambuto, qual è, oggi, la realtà professionale delle donne in neurochirurgia?
“Posso solo dire quale sia la realtà professionale che ho vissuto e mi trovo a vivere, o la realtà professionale di alcune colleghe, di altri ospedali o regioni, di cui ho un riscontro diretto. Non mi pongo verso questo lavoro come una donna, ma come un chirurgo. Quando ho scelto medicina e neurochirurgia, non ho mai messo nella valutazione dei pro e dei contro il fatto di essere una donna. Mi sono semplicemente chiesta se ero in grado di farmi carico di tutto quello che un lavoro come la neurochirurgia comporta, non come donna, ma come persona e come medico. E la mia risposta, con l’entusiasmo di chi aveva la sua laurea stretta in mano, era sì. E l’entusiasmo non mi ha per nulla abbandonato e spero proprio che continui nel tempo.
Credo che l’atteggiamento sia fondamentale. Non chiedere nulla di più di quello che devi e non aspettarti niente di meno di quello di cui hai diritto. Esserci sempre perché ti piace esserci. E fermarsi un attimo quando è necessaria una pausa. La chirurgia è un lavoro pesante che richiede anche resistenza fisica, oltre che concentrazione. Utilizzare lo stress di questo lavoro come pretesto per dire che la chirurgia non è un lavoro da donna è solo discriminazione. Ho visto colleghi uomini evitare la sala operatoria e colleghe donne accettare tutti i turni di reperibilità per starvi il più tempo possibile. Se un lavoro piace, se è quello per cui sei portato, l’essere uomo o donna non c’entra.
Nel mio breve percorso non ho trovato primari che mi hanno discriminato o messo di lato, svolgo la mia attività in un contesto più che favorevole e sono contenta di dire che la mia professionalità è apprezzata da chi mi dirige e dalle persone con cui lavoro. Naturalmente non credo che tutte le realtà siano perfette. Immagino che esistano ospedali dove la donna deve sgomitare un po’ di più, nei quali sia relegata a ruoli ambulatoriali contro la sua volontà, o graduatorie di merito in concorsi dove essere donna venga considerato, anche se non palesemente, una penalità.
Non ho ancora figli e la realtà professionale di una donna-madre-chirurgo può essere più complessa. Ritengo che sia questione di organizzazione e di incontrare nel tuo cammino professionale apicali, a tutt’oggi ancora per la maggior parte uomini, che valutino il tuo merito indipendentemente dall’essere uomo o donna. La meritocrazia riconosciuta esclude da sé la necessità di sponsorizzare le quote rosa”.
La sala operatoria è la parte più complessa della vita di un neurochirurgo o è più difficile tutto il resto: le relazioni con il paziente e con i familiari, che a volte ancora oggi non vogliono che il malato sappia?
“Direi che la sala operatoria è il motivo fondante dell’essere chirurgo in generale e dell’essere neurochirurgo nel caso particolare. È la ragione per la quale, a un certo punto della carriera universitaria, si sceglie una specializzazione piuttosto che un’altra, perché si desidera che a fare la differenza non sia un farmaco, ma sia tu in prima persona; almeno così è stato per me. Se si ha paura della sala operatoria, probabilmente si è fatta una scelta lavorativa sbagliata. Certo non è la parte più semplice perché è il luogo dove, anche se si è programmato un tipo d’intervento, può accadere l’imprevisto che bisogna gestire; ma è di certo il posto dove si cresce, s’impara e, naturalmente, si cura. E magari, alla fine di una lunga giornata, la stanchezza è ripagata nell’aver fatto qualcosa di buono per il paziente e un passo avanti nella tua crescita professionale.
Più insidiosa può rivelarsi la relazione con i familiari di un paziente o con i pazienti stessi, in quest’epoca in cui l’accesso a un’informazione superficiale è semplice, per cui l’utente spesso è convinto di conoscere a priori malattia e cura. A ciò si aggiunga la presenza della medicina difensiva che sembra aleggiare sopra ogni prescrizione o trattamento. Ritengo che la comunicazione sia la chiave di tutto. Il consenso informato alle cure deve essere realmente consapevole perché, nonostante tutta la professionalità e l’impegno, le patologie che trattiamo possono essere gravate da complicanze, ed è allora che la fiducia tra il medico e i familiari di un paziente non deve vacillare. Questo può accadere solo se si è costruito qualcosa prima.
Sottolineo che l’informazione deve essere sempre data al paziente perché possa decidere in libertà della propria salute, e, se egli lo consente, anche ai suoi familiari. D’altra parte in neurochirurgia, a volte, i pazienti non sono del tutto capaci di esprimere un consenso perché non in grado di intendere quanto esposto (vedi casi di neoformazioni cerebrali che compromettono il giudizio o la coscienza). In quest’ultimo caso i familiari vanno edotti sul tipo di procedura e sui suoi rischi e benefici”.
Secondo lei, quali doti caratteriali deve avere una donna per diventare un bravo neurochirurgo? Equilibrio, maturità, capacità di affrontare ogni imprevisto a nervi saldi, o la freddezza che ti permette di ragionare con lucidità?
“Credo che un neurochirurgo, uomo o donna che sia, debba saper prendere decisioni. Deve sapere cosa fare quando un paziente o, il collega da cui vai per il consulto, o il personale infermieristico, ti chiede una risposta. E credo che dare quella risposta con serenità sia una cosa tremendamente difficile. Soprattutto perché non sempre è univoca, perché magari una procedura può comportare dei rischi, ma non farla potrebbe portare a conseguenze peggiori…oppure no. E quindi devi combattere con i tuoi dubbi per ottenere la soluzione che porti al risultato migliore: fare, non fare, fermarsi, andare avanti… e non sempre c’è il tempo per chiedere un confronto. Ma, mentre fai i conti con te stesso, è importante apparire comunque decisi, per dare fiducia a chi si affida a te o alla squadra che con te lavora. E per prendere decisioni sempre esatte l’unico modo è accrescere le proprie conoscenze, studiare, aggiornarsi e osservare il lavoro di chi ha più esperienza”.
In ambito femminile la scelta di diventare neurochirurgo rimane ancora un po’ di nicchia in tutto il mondo? Come si posiziona l’Italia? Quante sono oggi le donne neurochirurgo in Italia?
“Non ho dati statistici o percentuali alla mano. Ma posso dire quello che ho visto nel mio percorso e continuo a vedere. Le facoltà di medicina sono piene di donne che arrivano in alcuni casi a superare gli uomini come numero d’iscritti. E quindi anche le scuole di specializzazione hanno fatto i conti, o lo faranno a breve, con una crescente presenza di candidati donne ai concorsi di accesso. Al mio primo anno di specializzazione eravamo due donne e sette uomini. Al termine dei cinque anni i nostri numeri si equivalevano.
Oggi in un reparto di neurochirurgia le donne sono in minoranza e i primari sono quasi tutti uomini. Credo sia solo un fatto generazionale e che con il passare degli anni vedremo pian piano equilibrarsi queste differenze. Gli apicali di adesso sono quelli che venticinque anni fa avevano circa la mia età, quando ancora le donne chirurgo erano una mosca bianca. Il mio auspicio è che aumenti il numero delle donne a guidare un reparto neurochirurgico, sempre sulla base delle competenze personali e mai sulla necessità di avere quote rosa”.
fonte: ufficio stampa