Milano/Mesagne, 21 ottobre 2019 – Dal 2000 ad oggi, più di un milione e mezzo di persone ultra ultrasessantacinquenni si sono fratturate il femore a causa dell’osteoporosi. Questo dato complessivo è in crescita costante, avendo raggiunto quasi 100.000 ricoveri all’anno per questa grave problematica dell’anziano (+20% nelle donne e addirittura +30% nei maschi).
È un quadro che fotografa 20 anni circa, drammatico, sia se ci soffermiamo sugli esiti infausti che si hanno dopo una frattura (400.000 decessi e 200.000 casi di invalidità permanente) sia se parliamo di soldi (18 miliardi di euro in costi sanitari per ricoveri, interventi e riabilitazione, a cui vanno aggiunti almeno 2 miliardi per le pensioni d’invalidità pagate dall’INPS).
Due fratturati su tre hanno più di 80 anni e quattro volte su 10 riguarda una donna oltre gli 85 anni di età. Però, l’incremento maggiore del numero di fratturati si registra nei maschi, forse perché si tratta di un problema sottovalutato nel sesso maschile (stesso errore che si fa per il rischio d’infarto nelle donne in post-menopausa).
“Con la nostra analisi dei grandi database sanitari – cioè grazie alle schede di dimissione ospedaliera (SDO)che rientrano a pieno titolo nei cosiddetti BIG DATA – abbiamo dimostrato che dopo i 70 anni di età le fratture di femore sono una causa di ospedalizzazione di gran lunga superiore all’infarto”. A parlare è il dott. Prisco Piscitelli, medico epidemiologo dell’Istituto Scientifico Biomedico Euro Mediterraneo (ISBEM) di Mesagne nonché Vice Presidente della Società Italiana di Medicina Ambientale (SIMA) di Milano.
“Sappiamo che già dal 2005 i costi sanitari delle fratture femorali negli ultrasessantacinquenni in Italia – e dunque su base osteoporotica – hanno superato il miliardo di euro l’anno se si include la riabilitazione, superando i costi di tutti gli infarti acuti del miocardio che si verificano oltre i 45 anni di età – prosegue Piscitelli – Il 68% delle fratture si verifica dopo gli 80 anni e in particolare il 40% in donne ultra-ottantacinquenni che rappresentano però solo il 4,4% della popolazione italiana. Sorprende che il 17% delle fratture femorali si registri negli ultranovantenni che ammontano appena all’1,1% della popolazione”.
Rispetto agli inizi degli anni 2000, le fratture femorali stanno dunque diventando sempre più un problema del grande anziano. Infatti, se il dato complessivo delle fratture aumenta fino a superare i 100.000 casi/anno contro gli 89.000 del 2000 lo si deve soltanto all’incremento dei fratturati oltre gli 85 anni di età.
Il 50% delle fratture di femore si registrano negli ultra-ottantacinquenni, con un incremento medio annuale più che doppio nei maschi (+5%) rispetto alle donne (+2,4%). In tutte le altre fasce di età si registra, infatti, una diminuzione di ricoveri per frattura femorale, che avevamo già evidenziato per le donne tra i 65 e 74 anni a partire dal 2004.
Il nostro nuovo studio pubblicato su Archives of Osteoporosis, sotto la supervisione scientifica del prof. Umberto Tarantino del Policlinico Universitario Tor Vergata di Roma, ha evidenziato un ulteriore trend di riduzione: le fratture tra i 75 e gli 84 anni di età sono passate da quasi 31.500 del 2007 a meno di 30.000 nel 2014
“Le fratture in questa fascia di età più avanzata diminuivano in tutte le regioni fino ai 79 anni di età, con delle eccezioni tra gli 80 e gli 85 anni limitate a Campania (+43.5%), Calabria (+43%), Puglia (+28%) e Lombardia (con +29% in quest’ultimo caso spiegabile per sole motivazioni demografiche). Al contrario, in Lazio le fratture diminuiscono anche dopo gli 85 anni di età. Emerge così una considerazione positiva: infatti, tali dati lasciano pensare che, negli ultimi 2 decenni, c’è stato un aumento di consapevolezza, una migliorata assistenza specialistica e una prevenzione più praticata in tema osteoporosi”, spiega Tarantino.
I rischi associati a queste condizioni includono, tradizionalmente, l’età, una ridotta attività fisica e il fumo, ma la prof.ssa Elena Colicino del Mount Sinai Hospital di New York e componente del Comitato Scientifico SIMA –afferma che “recenti studi hanno indicato che anche le esposizioni ambientali sono associate a queste condizioni. L’inquinamento atmosferico (il particolato con un diametro minore di 2.5 micron) è stato recentemente associato con un incremento di tasso di ospedalizzazione per fratture femorali e di polso in 9 milioni di americani con più di 65 anni (Pradaet al. 2017 Lancet Planetary Health) e in 6.000 norvegesi (Alver K et al. Osteoporos Int. 2010). Inoltre una cattiva qualità dell’aria (con elevati livelli di PM2.5, PM10 e black carbon) è stata associata ad una riduzione della densità ossea in uno studio condotto sia su uomini di mezza età (Pradaet al. 2017) che su uomini tra 75 e 76 anni (Alvaer K et al. Osteoporos Int. 2007; 18:1669–74.)”.
“Altri fattori ambientali, tra cui il piombo, il mercurio, e il cadmio, hanno inoltre mostrato di contribuire alla demineralizzazione ossea e ad un piu’ alto rischio di osteoporosi. (Engstromet al. 2011; Khalilet al. 2008; Pollacket al. 2013; Pradaet al. 2017). Si affacciano anche nuove esposizioni chimiche (PFAS), principalmente presenti nei packaging alimentare, nel pentolame come inquinanti indoor, che agendo sul sistema endocrino modulano gli ormoni e hanno un impatto sulla salute delle ossa, provocando una riduzione della densità e osteoporosi principalmente nelle donne in menopausa (Khalil, N.; Chen, A.; Lee, M.; Czerwinski, S.A.; Ebert, J.R.; DeWitt, J.C.; Kannan, K. Association of Perfluoroalkyl Substances, Bone Mineral Density, and Osteoporosis in the U.S. Population in NHANES 2009-2010. Environmental health perspectives 2016;12)”, prosegue Colicino.
“Tutti questi risultati indicano che tra i possibili rischi della decalcificazione e delle fratture ossee si devono includere anche fattori ambientali per cui si rendono necessari ed urgenti cambiamenti tecnologici e politici volti a ridurre le emissioni atmosferiche che sono riconosciute dannose. Infatti, per la sanità pubblica cioè le casse dello Stato, essi hanno un impatto economico di grande rilevanza anche per l’osteoporosi” conclude il prof. Alessandro Miani, Presidente della SIMA, società scientifica che opera in tutto il territorio nazionale.
Per quanto attiene al nostro Mezzogiorno, è necessario andare in risonanza con il resto del mondo e quindi ottenere dati utili, aumentando urgentemente il tasso di ricerca e il numero dei ricercatori. Infatti, sono tantissime le criticità da affrontare e per superarle è necessario lavorare in sinergia fra Istituzioni, Ricerca, Imprese, Cittadini attivi, Scuole e mondo dei Media che diventano gli attori del vero progresso, se collaborano.
Un buon percorso, invero, è quello di adoperarci affinché le risorse scientifiche del nostro Paese possano focalizzarsi al bene comune (un tema dopo l’altro), per competere al meglio con il resto del mondo e per essere d’aiuto ai Decisori che hanno bisogno di evidenze per fare le scelte giuste, appropriate e tempestive.
Ma come rafforzarci in questa convinzione se non si prende atto di queste tre criticità?
- Il numero di laureati che intraprendono i percorsi della ricerca e alta formazione è ancora troppo basso in Italia;
- L’esodo dei giovani, laureati o meno, che lasciano l’Italia e in particolare il Mezzogiorno, appare inarrestabile e di certo capace di causare ulteriore impoverimento per questa macroregione dell’Europa;
- Quanti sanno che i veri progressi nell’assistenza biomedica e sanitaria provengono dalla ricerca e dalla formazione? Essi devono essere sostenibili, accessibili e duraturi per poter portare benefici a tutti.