La mia attenzione, in questo articolo, va al corpo del paziente psichiatrico, alle ricerche e alle tecniche riabilitative, con riguardo particolare all’intervento neuropsicomotorio.
La malattia mentale induce di solito il paziente alla negazione del proprio corpo, la cura del quale diventa un impegno secondario rispetto al forte interesse che egli nutre verso i propri pensieri.
Il paziente dimostra così sempre meno attenzione alle sensazioni di caldo, di freddo, allo stimolo della sete e al bisogno di sonno, rapito com’è dal fascino e dal tormento delle proprie idee. Nel protrarsi del disturbo, il malato organizza un proprio corpo chiuso, avvolto in una corazza che dovrà difenderlo dalle minacce del mondo interno e da quello esterno.
Un intervento che utilizzi il corpo, oltre che la parola, può consentire al paziente di riascoltare le richieste del corpo stesso, per porlo in uno spazio comune, fra il proprio Sé e il mondo esterno.
Questa terapia trova, in ambito psichiatrico, la sua giustificazione nel consentire al paziente di riconoscere gradualmente le proprie sensazioni e le proprie percezioni, non tanto per guarire dalla malattia, quanto per ristabilire una corporeità che diventi il luogo del sentire e del comunicare.
Già sulla fine dell’Ottocento negli ospedali psichiatrici, come il Salpetrière di Parigi, la rieducazione del corpo rientrava nel protocollo utilizzato. Pierre Janet, certo che il pensiero e la motilità fossero fra loro legati, proponeva un primario intervento sulla disorganizzazione dei movimenti dei malati mentali.
La psicomotricità utilizza, in buona sintesi, i movimenti del paziente, il suo ritmo, i suoi disegni, ricorrendo all’ausilio di palloni, di cerchi e di blocchi, affinché, nel gioco ben regolato, si possa promuovere il recupero psichico.
Non esiste una terapia valida per tutti, ma un paziente e un terapeuta in continuo ascolto.