Roma, 25 ottobre 2018 – Grazie al ricovero in Stroke Unit e al successivo trattamento in centri di Neuroriabilitazione intensiva, il numero di pazienti che sopravvive all’ictus è in costante incremento. Questo straordinario risultato si accompagna però ad un parallelo incremento del numero di pazienti con grave disabilità da ictus che, dopo la dimissione dai reparti di riabilitazione ad alta intensività, ha il concreto rischio di entrare in una fase di cronicità senza speranza di ulteriore recupero.
Esperti di neuroriabilitazione e bioingegneri sono alla ricerca di nuovi approcci capaci di incrementare il potenziale di recupero in pazienti colpiti ad ictus a rischio di disabilità cronica. Sistemi robotici per la neuroriabilitazione trasportabili in un trolley e stimolatori cerebrali miniaturizzati potrebbero offrire nuove opportunità di recupero a centinaia di migliaia di pazienti. Perché solo in Italia sono 200mila le persone colpite ogni anno da ictus cerebrale, sul quale la Giornata Mondiale del prossimo 29 ottobre vuole sensibilizzare istituzioni e opinione pubblica.
L’80 per cento sono nuovi casi e il 20 per cento recidive. Una elevata percentuale di pazienti colpiti da ictus presenta una grave disabilità ed è totalmente dipendente dai propri familiari. Con costi sociali altissimi, perché secondo l’European Brain Council (l’ente scientifico europeo che rappresenta una vasta rete di pazienti, medici e scienziati), il costo a paziente a carico di famiglia e collettività, escludendo le spese dell’SSN, è di circa 30mila euro l’anno, per un totale in Italia di 14 miliardi di euro. Una legge finanziaria.
Spese che spesso devono supplire alla carenza di posti per la neuroriabilitazione di alta specialità, della quale necessitano molti dei pazienti colpiti da ictus. In Italia per due su tre di loro non c’è disponibilità di letti.
Ogni anno in Italia circa 42.300 pazienti dimessi dai reparti “con esiti gravissimi da ictus e calcolando che mediamente ciascuno necessita di 41 giorni di degenza ne consegue che solo per loro c’è un fabbisogno di 4.800 posti letto, oltre ai 1.365 necessari per la neuroriabilitazione di paratetraplegie” informa un rapporto della SIRN, la Società Italiana di Neuro Riabilitazione.
Quindi in tutto servirebbero 6.125 letti, mentre i dati del Ministero della Salute dicono che quelli ad alta specialità sono solo 2.328. Poco più di un terzo di quelli necessari. E anche per la neuroriabilitazione non classificata come di alta specialità i posti scarseggiano: ce ne sono 22.906, mentre secondo le Società scientifiche ne occorrerebbero oltre 29 mila. Per non parlare del fatto che per ragioni di contenimento dei costi molte Regioni fissano dei paletti per la remunerazione delle giornate di riabilitazione cha vanno dai 60 ai 40 giorni.
“Quando il paziente viene dimesso spesso entra in una terra di nessuno, e questo spesso significa interruzione anzitempo delle terapie e compromissione delle possibilità di recupero del paziente”, spiega prof. Vincenzo Di Lazzaro, responsabile dell’Unità di Neurologia e direttore della Scuola di Specializzazione in Neurologia dell’Università Campus Bio-Medico di Roma (UCBM). “Per questo – aggiunge – sono importanti i passi avanti compiuti dalla ricerca per portare fuori dagli ospedali e dalle cliniche, idealmente a domicilio del paziente, gli strumenti più avanzati per la riabilitazione post-ictus. Al Campus stiamo sperimentando sistemi robotici di neuroriabilitazione compatti e trasportabili facilmente e apparecchiature per l’elettrostimolazione cerebrale che si trasportano in un beauty. Con la stimolazione del nervo vago, che ha un potente effetto attivante sull’encefalo, e con la stimolazione cerebrale a corrente diretta, per mezzo di elettrodi di superficie applicati sul cuoio capelluto, riusciamo ad indurre un aumento della plasticità delle cellule poste in prossimità dell’area danneggiate dall’ictus, promuovendo il recupero delle funzioni neurologiche compromesse dall’ischemia cerebrale. Si tratta di trattamenti non invasivi, che non arrecano alcun disturbo al paziente, di una durata contenuta da due a quattro settimane, con risposte più che soddisfacenti, quando sono integrate con la più recente robotica riabilitativa che ha creato, ad esempio, ICONE, che ci accingiamo a sperimentare sempre qui al Campus”.
Una creazione della spin-off dell’UCBM, ICan Robotics, che ha prodotto il primo sistema completo, ma di facile utilizzo, certificato per essere usato non solo negli ospedali, ma anche a casa del paziente, vista la sua maneggevolezza e le modeste dimensioni, che ne consentono il trasporto in una valigetta.
La riabilitazione robot-assistita
L’ictus rappresenta la prima causa di disabilità per la popolazione adulta. Dopo un attacco, la riabilitazione neuromotoria permette di ottenere importanti miglioramenti, ma spesso il recupero è incompleto. Soprattutto quando il percorso riabilitativo non è avviato tempestivamente.
“Al contrario, più si restringe il tempo di mancato utilizzo di un arto piuttosto che delle funzioni del linguaggio, maggiore è il recupero”, spiega la prof.ssa Silvia Sterzi, Responsabile dell’Unità Operativa di Medicina fisica e riabilitazione del Policlinico Universitario Campus Bio-Medico.
“Per questo – aggiunge – da noi la fase di riabilitazione inizia già al momento del ricovero, quando in sinergia con i neurologi si fa una prima valutazione dei danni subiti dal paziente per definire tempestivamente i trattamenti mirati. Anche in funzione del genere e dell’età che determinano maggiore o minore plasticità delle cellule celebrali e che richiedono quindi percorsi riabilitativi differenziati”.
Fisioterapisti e logopedisti intervengono con le tecniche di riabilitazione tradizionali, lavorando in team con gli infermieri, che poi seguono i pazienti per le lunghe ore della giornata.
Ma superata la fase acuta, la fisioterapia diventa robot-assistita. Un supporto, quello della bioingegneria, “che consente di pianificare con precisione gli esercizi utili al paziente e di ottenere trattamenti standardizzati, perché – spiega la professoressa – contrariamente all’uomo l’efficacia della macchina non varia mai”.
I robot consentono in prima istanza di registrare le capacità di movimento del singolo paziente, per poi supportarlo nei movimenti che non riesce a compiere, aiutandolo così a progredire passo dopo passo, favorendo la neuroplasticità delle cellule celebrali colpite dall’ictus.
“Presso il nostro Policlinico Universitario – prosegue Sterzi – abbiamo tre tipi di robot: uno per il recupero di braccio e avambraccio, uno per la mobilità del polso e l’altro, arrivato da poco, per l’articolazione della mano. In tutti e tre i casi, in una prima fase il paziente prova a compiere degli esercizi che di solito riproducono movimenti della vita quotidiana, senza supporti della macchina. Questa, dopo aver registrato i deficit funzionali, inizia a supportarlo in quella parte del movimento che da solo non riesce a compiere. Ad esempio, il paziente può raggiungere e spegnere dei punti luminosi che si accendono davanti allo schermo con l’ausilio del braccio-robot, il quale registra forza, fluidità e precisione dei movimenti che sono oltre mille in una seduta di una sola ora”. E i progressi che mostrano i grafici elaborati dallo stesso robot sono sorprendenti.
La nostra Università ha anche partecipato allo sviluppo di un dispositivo robotico indossabile in grado di assistere persone con disabilità all’arto superiore per lo svolgimento di attività di vita quotidiana in un contesto domestico. La piattaforma è stata realizzata nell’ambito del progetto europeo AIDE, dai ricercatori dell’Unità di Robotica Biomedica e Biomicrosistemi di UCBM insieme ai colleghi dell’Universidad Miguel Hernandez di Elche (Spagna) e della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa.
È costituita da un esoscheletro di arto superiore di tipo antropomorfo, in grado di assistere il movimento di spalla, gomito, polso e mano in modo adattativo, e interfacce uomo-macchina naturali e altamente personalizzate.
L’efficacia del sistema è stata valutata su circa 20 pazienti emiparetici con diversi livelli di gravità, grazie al contributo dell’Unità di Medicina Fisica e Riabilitazione del nostro Policlinico e con la collaborazione del Cedar Foundation (UK), del Centro protesi INAIL di Vigorso di Budrio e del Gruppo di Lavoro Interregionale Centri Ausili Informatici ed Elettronici per Disabili.
Ma la tecnologia viene a supporto anche dei movimenti degli arti inferiori, solitamente impediti dopo l’ictus dall’insorgere del cosiddetto ‘piede equino’, causa di molte cadute con frattura del femore che rendono ancora più difficoltoso il percorso di recupero. Per questo, diventano indispensabili le ‘ortesi’, nuovi tutori in lega leggerissima che si mimetizzano sotto scarpe e pantaloni, ma che consentono al piede di mantenere una posizione corretta durante la deambulazione.
Ben sei telecamere riprendono i pazienti durante le sedute di riabilitazione con le ortesi, “consentendo così a un software di ricostruire nel dettaglio i movimenti del paziente per individuare poi esercizi e tutori a misura del singolo paziente. Lo stesso sistema – aggiunge la prof.ssa Sterzi – permette anche di valutare, grazie a 89 markers, i movimenti della cassa toracica durante la respirazione, che subiscono limitazioni sia nei soggetti colpiti da ictus che nei pazienti sottoposti a dolorosi interventi chirurgici di toracotomia (taglio e allargamento delle costole per interventi al polmone, ndr). In questo modo – conclude – riusciamo a definire percorsi di riabilitazione più mirati che hanno fino ad oggi consentito un recupero a livelli migliori di quelli registrati prima dell’intervento o dell’evento ischemico”.
Un guanto per il recupero dell’arto dopo l’ictus
Il recupero delle funzioni motorie dell’arto superiore in seguito ad ischemia cerebrale è una delle sfide della Riabilitazione moderna. L’Unità Operativa di Medicina Fisica e Riabilitazione dell’Università Campus Bio-Medico di Roma, in collaborazione con l’Unità di Ricerca di Robotica Biomedica e Biomicrosistemi, ha elaborato un progetto di ricerca che ha l’obiettivo di valutare l’efficacia di un guanto robotico per il trattamento dell’arto superiore (il Gloreha Sinfonia) su 50 pazienti emiparetici, rompendo gli schemi della terapia tradizionale.
Questo per quanto riguarda l’attività di riabilitazione più avanzata, della quale già possono beneficiare i pazienti, sia pure in via sperimentale. Ma la ricerca promette altri ‘miracoli’, grazie a nuove tecniche di stimolazione nervosa non-invasiva di recente introduzione, come la stimolazione cerebrale elettromagnetica e la stimolazione vagale transcutanea, che possono facilitare il recupero.
Partendo da questi studi iniziali molto promettenti i ricercatori dell’Università Campus Bio-Medico di Roma hanno messo a punto protocolli innovativi per potenziare le capacità di recupero del cervello umano dopo un ictus.
Nuove terapie mirate per un migliore recupero
Protocollo di Stimolazione Transcranica promettenti per promuovere i fenomeni di recupero
Si chiama tDCS ed è un protocollo di neurostimolazione che potrebbe rendere più efficienti i meccanismi di ‘recupero’ del danno cerebrale causato da un ictus ischemico. È in corso di sperimentazione all’Università Campus Bio-Medico di Roma.
Per il recupero, c’è bisogno di un processo di ‘riapprendimento’ che fa leva sulla cosiddetta ‘plasticità cerebrale’, ovvero la capacità delle zone del cervello non danneggiate d’imparare a svolgere le funzioni neurologiche prima proprie delle aree irrimediabilmente compromesse dall’ischemia.
La stimolazione cerebrale non invasiva può incrementare il potenziale di riapprendimento. Con la tDCS la stimolazione cerebrale non invasiva apre, dunque, nuovi scenari nel trattamento delle conseguenze dell’ictus cerebrale.