Roma, 13 ottobre 2016 – L’incidenza dell’HIV non è diminuita, ma dell’infezione si parla ormai poco. Eppure 60mila pazienti in Italia non raggiungono il controllo della carica virale con le terapie, rimanendo in grado di infettare i partner: si stima inoltre che circa 12mila persone siano infette senza saperlo. Infine, ogni anno si aggiungono circa 3.800 nuovi casi, l’84% dei quali riguarda persone che hanno contratto l’infezione attraverso il contatto sessuale.
In questo quadro, fatto di percentuali e statistiche (i dati sono quelli dell’Istituto Superiore di Sanità), emergono alcune novità: aumentano le infezioni da maschio a maschio, come pure quelle tra i ragazzi molto giovani, con meno di 25 anni e, inaspettatamente, tra gli over 70-80, a causa probabilmente del consumo di farmaci che permettono e promettono una rinnovata vivacità sessuale, incauta e scevra dalla preoccupazione del rischio di infezioni.
Oltre alle tabelle e alle terapie (che hanno reso l’HIV una malattia cronica), ci sono storie personali e retroscena etici e legali che quasi mai vengono presi in considerazione, almeno sino a che non raggiungono le pagine della cronaca locale o nazionale.
Constatato un aumento delle cause legali legate all’infezione da HIV di circa il 10% negli ultimi due anni. Vediamo allora quali sono le situazioni per le quali il giudice può entrare nel merito di ciò che avviene in camera da letto, con l’aiuto dell’avv. Salvatore Frattallone, penalista ed esperto in diritto della privacy e protezione dei dati personali.
Avvocato, la questione è tutt’altro che semplice e si può arrivare a rischiare il carcere, allora spieghiamo quali sono i casi più frequenti in cui si può commettere un reato. Poniamo il caso di un soggetto che si è infettato, magari un anno prima, ma che non ne è a conoscenza perché non ha sintomi e non ha fatto il test di recente. Il soggetto ha una vita sessuale attiva e ‘involontariamente’ infetta una persona con cui ha avuto rapporti e che può risalire a lui. Può denunciarlo? Che reato si configura? Cosa rischia?
Le Sezioni Unite, nel 2014 sono state esplicite nel prevedere che nei casi di contagio da HIV è necessaria una previa indagine circa l’effettiva volontà di contagio da parte della persona infetta: occorre, ai fini della rilevanza penale della condotta, che l’evento derivato dal contagio (la morte o le lesioni) sia voluto dal reo. Nel caso ipotizzato, se l’infetto non è a conoscenza del proprio stato di sieropositività (purché ciò risulti processualmente accertato, grazie all’assenza di elementi idonei a provare il contrario, come ad esempio la mancanza di sintomatologia) è indice del difetto di consapevolezza: va quindi esclusa la sua punibilità perché non è in dolo né in colpa.
Altra ipotesi: il soggetto X sa di essere infetto e prende precauzioni per evitare di contagiare il/i partner, come l’uso di profilattici, ma non comunica nulla circa la propria condizione alle persone che hanno rapporti con lui.
Ogni persona ha diritto alla tutela della propria privacy, come legislativamente previsto dal D.L.vo n° 196/2003 (Codice Privacy). La diffusione e/o la comunicazione dei dati sensibili senza che vi sia stato il consenso dell’interessato integrano infatti un’ipotesi di trattamento illecito penalmente rilevante. Difatti quei dati personali che sono idonei a rivelare lo stato di salute o la vita sessuale della persona godono di una tutela rafforzata. Il soggetto affetto da HIV, quindi, ha diritto alla protezione della “notizia” relativa al suo stato morboso e le strutture sanitarie sono autorizzate a comunicarlo a soggetti terzi (ivi compresi il coniuge o i conviventi) solo se c’è stata una preventiva delega scritta rilasciata dall’interessato. I profili attinenti alla tutela della dignità dell’infetto e alla “data protection” si pongono in frizione con i profili di tutela della salute, a fini di prevenzione, di coloro che potrebbero essere contagiati: allo stato attuale lo scoglio è arginabile solo attraverso campagne di sensibilizzazione volte a “convincere” la persona infetta a rendere noto il proprio stato almeno alle persone con cui intrattiene rapporti sessuali. La comunicazione, però, è una decisione che spetta esclusivamente all’interessato.
Veniamo ad un altro caso: il soggetto sa di essere infetto, lo comunica al partner di turno che decide consapevolmente di rinunciare all’uso di protezioni atte a scongiurare il contagio. Non entriamo nel merito del buon senso, ma atteniamoci a quello giuridico.
In una situazione del genere la punibilità non può assolutamente ritenersi esclusa dalla scriminante del “consenso dell’avente diritto”, (art. 50 c.p.). La vita è infatti un diritto indisponibile e il solo fatto di aver accettato il rischio che l’altra persona potesse contrarre il virus, riportando lesioni gravissime o, addirittura, perdendo la vita, rende punibile l’untore a titolo di dolo eventuale per il reato, rispettivamente, di lesioni o omicidio volontari. Quando invece il sieropositivo, pur consapevole della sua malattia, abbia agito nella convinzione (anche infondata) che l’evento non si sarebbe mai verificato, la punibilità del relativo reato, se il contagio avviene, sarà a titolo di colpa aggravata dalla previsione dell’evento. Dovrà sussistere la prova, aldilà di ogni ragionevole dubbio, che il contagio è derivato esclusivamente da quel rapporto sessuale, piuttosto che – in ipotesi – da emotrasfusioni di sangue infetto o da ulteriori rapporti occasionali con soggetti diversi.
Un’altra situazione, non meno importante: il soggetto sa di essere infetto e mette al corrente il partner, entrambi decidono di comune accordo di assumere protezioni adeguate ma il contagio avviene a causa di una svista (raro ma possibile). Ci sono gli estremi per una causa?
In tal caso occorrerà accertare in giudizio che il soggetto affetto da HIV abbia realmente adottato tutte le precauzioni del caso, atte ad evitare il contagio, poiché, in caso contrario, sarebbe punibile soltanto a titolo di colpa. Secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, infatti, l’untore è punibile anche nel caso in cui abbia sperato, anche solo per ignoranza, di non trasmettere lo stato morboso al proprio partner e invece lo ha contagiato veramente. Essere penalmente responsabili per colpa significa aver violato le più comuni regole di prudenza. Solo nell’ipotesi in cui il giudice dovesse ritenere che il soggetto malato abbia fatto tutto il possibile per evitare il contagio, allora la sua punibilità sarà esclusa.
Ultimo caso: una madre, che non sa di essere infetta, trasmette al figlio l’HIV durante il parto: è punibile?
Anche in questo caso, come nel primo trattato, difetta un elemento essenziale ai fini della rilevanza penale: l’elemento soggettivo. La madre non è punibile perché non sapeva del suo stato e quindi ha agito senza dolo né colpa. Diverso, naturalmente, è il caso in cui la donna, già consapevole del suo stato di salute prima di rimanere incinta, abbia deliberatamente scelto di avere un figlio, accettando il rischio della sua morte o delle sue lesioni, a causa di un probabile contagio. Qualora uno di questi eventi si verifichi, la condotta diventa penalmente rilevante a titolo di dolo eventuale, ed è quindi l’ipotesi più grave. La donna sarebbe altresì punibile, ma soltanto per colpa cosciente, nel caso in cui avesse creduto che il contagio mai si sarebbe potuto verificare. D’altronde, al giorno d’oggi è ben possibile che donne sieropositive partoriscano figli sani, grazie anche alle terapie preventive cui vengono sottoposte che azzerano il rischio di contagio per il neonato.
Di recente, sono peraltro stati effettuati dei test sperimentali che consentirebbero la guarigione definitiva dalla malattia, eliminandola non solo dal sangue, ma anche dal DNA: i risultati del test, effettuato su 50 pazienti, non arriveranno però prima di 5 anni.
Il fatto che il virus possa, se adeguatamente trattato, scomparire nella persona contagiata non toglie nulla alla responsabilità di chi può trasmetterla: se una persona può guarire dalle lesioni riportate a causa di un pugno sferrato al suo volto, ciò non esclude l’illiceità penale della condotta dell’aggressore. Allo stesso modo l’infetto è ritenuto colpevole delle conseguenti lesioni, ancorché l’evento che ne deriva possa essere meno grave (lesioni anziché omicidio).
fonte: ufficio stampa