Roma, 29 settembre 2023 – Sono 4 i fattori di rischio tradizionali per malattie cardiovascolari, noti dagli anni ’60: ipertensione, colesterolo alto, diabete e fumo di sigaretta. Il primo obiettivo è dunque combatterli, con tutte le armi a disposizione. Ma anche quando siano perfettamente sotto controllo, il rischio di un reinfarto o di un ictus non si azzera.
Colpa del cosiddetto ‘rischio residuo’, alimentato da 4 ‘nuovi’ fattori di rischio cardiovascolari: lipoproteina(a) e trigliceridi, infiammazione, trombosi, inquinamento atmosferico. Il prof. Filippo Crea, Ordinario di Cardiologia all’Università Cattolica del Sacro Cuore spiega come affrontare anche questi nuovi nemici delle arterie.
Si chiama ‘rischio residuo’ ed è il grande cruccio dei cardiologi di tutto il mondo, perché di fatto sta ad indicare un parziale insuccesso nel prevenire gli eventi cardiovascolari, nonostante vengano messe in atto tutte le misure possibili contro i fattori di rischio tradizionali. Abbassare la pressione, ridurre i valori di colesterolo o di glicemia, eliminare il fumo di sigaretta sono i principali obiettivi da perseguire in un’ottica di prevenzione.
Ma anche quando tutti gli obbiettivi di trattamento vengano centrati, molti re-infarti o nuovi ictus sfuggono alle maglie della prevenzione. Di qui il concetto di ‘rischio residuo’ che in pratica implica la necessità di fare di più e meglio. Adesso è dunque necessario andarli a intercettare e contrastare con nuovi farmaci e non solo.
In occasione della Giornata Mondiale del Cuore 2023, abbiamo fatto il punto della situazione con un grande esperto in materia, il prof. Filippo Crea, ordinario di Cardiologia Università Cattolica del Sacro Cuore e direttore del Centro di Eccellenza di Scienze Cardiovascolari, Gemelli Isola-Fatebenefratelli Isola Tiberina di Roma.
Prof. Crea a che punto sono gli sforzi di prevenzione delle malattie cardiovascolari?
In termini di prevenzione, quello che abbiamo finora imparato è che contrastare i fattori di rischio ‘tradizionali’ ipertensione arteriosa, dislipidemie, diabete, fumo, obesità rimane una ‘stella polare’, una direzione obbligata verso la quale procedere. Il primo passo insomma è cercare di riportare a livello target l’eccesso di colesterolo cattivo (LDL), la pressione arteriosa e il diabete, e incoraggiare l’astensione dal fumo nella maniera più energica possibile. Ma abbiamo imparato che anche quando i fattori di rischio fondamentali vengono normalizzati, rimane ancora una quota rilevante di rischio, che chiamiamo ‘rischio residuo’. Questo rischio residuo dipende da quattro ulteriori ‘nuovi’ fattori di rischio, di natura lipidica, trombotica, infiammatoria e ambientale.
Cosa si può fare di più dunque per combattere i lipidi circolanti?
Abbiamo visto che tra i lipidi la lipoproteina (a) e i trigliceridi sono potenti fattori di rischio, indipendenti dal colesterolo cattivo (LDL) e che finora abbiamo trascurato anche perché mancavano terapie. Oggi, grazie alla tecnologia a RNA, abbiamo nuovi farmaci per contrastare la Lp(a) e i trigliceridi. Un nuovo obiettivo di questa prevenzione 3.0 è dunque quello contrastare questo componente del rischio residuo, legata ad un eccesso di lipidi che non sono controllati dalle statine.
E per prevenire più efficacemente la malattia trombotica?
Un’altra importante quota di rischio residuo è legata ad una insufficiente protezione da infarto e morte improvvisa per la formazione di trombi all’interno delle arterie. Finora ci siamo difesi da questo rischio con una terapia anti-trombotica molto nota, l’aspirina. Ma anche qui forse possiamo fare di meglio nel contrastare questo rischio con nuovi farmaci anti-piastrinici e anti-coagulanti; tra i primi, anche farmaci già in uso da tempo come il ticagrelor, che potrebbe essere utilizzato come una ‘super-aspirina’; tra i secondi, molto interesse sta generando il prossimo arrivo di nuovi anti-coagulanti orali, gli inibitori del fattore XI.
E per quanto riguarda l’infiammazione? Perché contribuisce al rischio di infarto e come proteggersi?
L’infiammazione è in gran parte determinata da fattori di rischio ‘ambientali’, cioè ad uno stile di vista scorretto. E il marker che segnala questo rischio residuo infiammatorio è la proteina C reattiva (PCR) che è una specie di barometro perché i suoi livelli aumentano con l’obesità, la vita sedentaria e nei soggetti che seguono una dieta povera di frutta e verdura, elementi fondamentali della dieta mediterranea. Insomma c’è un rischio infiammatorio legato in parte a stili di vita scorretti, che vanno assolutamente corretti.
Ma anche quando correggiamo l’infiammazione derivante da uno stile di vita scorretto, rivelato dalla PCR elevata, rimane ancora una quota di rischio infiammatorio, che va affrontato con farmaci adeguati. Recenti studi randomizzati hanno rivelato che la colchicina, un vecchio farmaco utilizzato da decenni contro la gotta e le pericarditi, è efficace soprattutto in prevenzione secondaria, cioè in chi ha già una storia di cardiopatia ischemica.
L’aggiunta della colchicina alla terapia convenzionale in questi soggetti migliora la prognosi. I risultati di questi studi sono stati così convincenti che le autorità regolatorie europee (EMA) e americana (FDA) hanno già approvato l’impiego della colchicina nella prevenzione secondaria dell’infarto. Questi trial clinici peraltro hanno confermano definitivamente l’ipotesi infiammatoria della genesi dell’infarto, che per primi avevamo proposto con uno studio pubblicato sul New England Journal of Medicine nel 1994.
E tra i fattori di rischio ambientali?
Soprattutto per chi vive in una grande città, va considerato anche il cosiddetto rischio residuo ambientale, legato all’inquinamento dell’aria. Si tratta di un rischio che agisce in profondità sui meccanismi che portano alla malattia aterosclerotica, all’infarto e all’ictus. In questo caso non è possibile contrastarlo con terapie farmacologiche e solo in minima parte mettendo in atto dei comportamenti adeguati. E di certo è un rischio che andrebbe affrontato attraverso scelte politiche impattanti, capaci di ridurre i livelli di inquinamento nelle nostre città. Il rischio ambientale, non solo quello legato alla salute, sta pericolosamente raggiungendo il punto di non ritorno.