Roma, 12 giugno 2024 – Il congresso dell’American Society of Clinical Oncology (ASCO) di recente tenutosi a Chicago è stata una vetrina di novità e messe a punto anche nel campo della ginecologia oncologica. Nuovi approcci chirurgici, all’insegna del ‘less is more’, un nuovo test per guidare alla scelta della chemioterapia più efficace e nuove terapie o associazioni di immunoterapici per tumori difficili da trattare. Il punto con il prof. Giovanni Scambia e la dott.ssa Camilla Nero, IRCCS Gemelli.
‘Less is more’ nella chirurgia dei tumori ovarici
Lo studio CARACO ha dimostrato che le pazienti con tumore dell’ovaio epiteliale in fase avanzata, sottoposte a intervento chirurgico, possono evitare in sicurezza l’asportazione dei linfonodi che non appaiano interessati dal tumore.
“Questo approccio – spiega il prof. Giovanni Scambia, Ordinario di Ginecologia e Ospetricia all’Università Cattolica e Direttore Scientifico di Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS – riduce le possibili complicanze inerenti all’asportazione di linfonodi sani (lesioni vascolari, linfedema e linfocele), senza al contempo ridurre le chance di sopravvivenza delle pazienti”.
Il trial, randomizzato, di fase 3 e condotto su 379 pazienti, è stato presentato dal prof. Michael Lowe della Emory University (Atlanta, Usa). “Il trattamento standard per il tumore dell’ovaio – ricorda il prof. Scambia – è l’intervento chirurgico per rimuovere quanta più massa tumorale possibile, seguito dalla chemioterapia”.
In passato le pazienti venivano sottoposte anche ad asportazione dei linfonodi della pelvi e intorno all’aorta addominale; tuttavia, lo standard di trattamento è diventato l’intervento chirurgico semplice senza asportazione dei linfonodi, dopo la pubblicazione dei risultati dello studio LION (2019).
“Nelle forme avanzate di tumore epiteliale ovarico – spiega il prof. Giovanni Scambia – le pazienti vengono invece sottoposte prima a chemioterapia (neoadiuvante), seguita dall’intervento chirurgico. Partendo dai risultati dello studio LION, lo studio CARACO si è chiesto se anche nelle forme avanzate potesse possibile evitare di asportare i linfonodi apparentemente sani”.
La risposta è stata ‘sì’, perché dopo un follow-up mediano di 9 anni, non si è registrato un impatto negativo sulla sopravvivenza delle pazienti non sottoposte a linfoadenectomia. Il tumore epiteliale è la forma più comune (85-90%) di tutti i nuovi casi di tumore ovarico; 3 donne su 4 ricevono la diagnosi quando il tumore è già in stadio avanzato.
L’antibiogramma dell’oncologo. Il test che guida alla scelta della migliore chemioterapia
“Dopo un’iniziale risposta alla chemioterapia – spiega la dott.ssa Camilla Nero, ricercatrice di Ginecologia e Ostetricia presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, campus di Roma e responsabile della UOS programmazione ricerca traslazionale, Fondazione Policlinico Gemelli IRCCS – molte pazienti con tumore dell’ovaio sviluppano una resistenza alla terapia e vanno in progressione di malattia. Il medico si trova dunque a scegliere in maniera empirica un secondo regime di trattamento, senza aver modo di prevedere se avrà successo o meno”.
Molto interesse ha destato a questo riguardo uno studio presentato dal Cancer Center dell’Università di Cincinnati cha ha valutato la risposta a 13 diversi regimi di chemioterapia nelle donne con tumore dell’ovaio, utilizzando il test ChemoID® su cellule di tumore ovarico presenti nel liquido ascitico (l’ascite è il liquido che si forma all’interno della cavità addominale in diverse patologie, tra le quali quelle tumorali) e su cellule staminali sempre provenienti dal tumore.
“Le cellule staminali – spiega la dott.ssa Nero – sono le responsabili della comparsa di resistenza alla terapia, perché permettono al tumore di sfuggire al trattamento e riprendere a crescere. La possibilità di capire in anticipo quale sia il cocktail di chemioterapia più efficace per attaccarle rappresenta dunque un indubbio vantaggio”.
Il test è stato valutato all’interno di uno studio multicentrico randomizzato che ha confrontato due gruppi di pazienti con tumore ovarico epiteliale resistente alla chemioterapia a base di platino; il primo gruppo veniva trattato secondo la scelta empirica del medico; il secondo riceveva un regime di chemioterapia selezionato sulla base della risposta del test ChemoID®, che funziona un po’ come la scelta di un antibiotico per un’infezione, guidata dall’antibiogramma.
La risposta oggettiva alla chemioterapia è stata del 55% tra le donne trattate sulla base dei risultati di questo testo, contro appena il 5% di quelle trattate in maniera empirica; la sopravvivenza libera da progressione di malattia è stata di 11 mesi nel gruppo ChemoID, contro appena 3 mesi dell’altro gruppo. “Sono risultati molto promettenti – conclude la dott.ssa Nero – che andranno validati da ulteriori studi su un maggior numero di pazienti”.
Terapie vincenti per tumori ‘difficili’
Dall’ASCO arriva anche qualche interessante novità sul fronte dei trattamenti per le forme più difficili da trattare di tumore dell’ovaio. “Lo studio cinese di fase III SCORES, condotto su 421 pazienti – afferma la dott.ssa Nero – ha evidenziato che nei tumori dell’ovaio resistenti alla chemioterapia a base di platino, il Suvemcitug (un farmaco anti-angiogenetico di nuova generazione, che impedisce al cancro di generare i vasi che lo aiutano a crescere) in aggiunta alla chemioterapia, ha mostrato un miglioramento promettente nella sopravvivenza libera da progressione di malattia (5,49 mesi contro 2,73 mesi) con un trend positivo rispetto alla sopravvivenza”.
Nel caso dei tumori a cellule chiare in fase metastatica, forme che rispondono molto poco alla chemioterapia, “lo studio di fase 2 BrUOG 345 – ricorda la dott.ssa Nero – ha evidenziato che il trattamento con una ‘doppietta’ di immunoterapie (Nivolumab-Ipilimumab) è più efficace della monoterapia con nivolumab; la ‘doppietta’ ha prodotto una risposta completa nel 16,7% delle pazienti (contro lo 0% della monoterapia)”.