Un team di ricercatori dell’ INGV e delle università di Catania e Ferrara ha rivisitato i dati dell’eruzione dell’Etna del 28 Dicembre 2014, aprendo la strada a nuovi modelli interpretativi dell’attività eruttiva sia del vulcano siciliano sia dei vulcani basaltici in generale. Lo studio è stato pubblicato su Scientific Reports di Nature
Roma, 25 luglio 2017 – L’attività eruttiva all’Etna può manifestarsi anche senza l’arrivo di magma dal profondo, ma solo per effetto del continuo flusso di gas che surriscalda le rocce della parte apicale dell’edificio vulcanico. Ad arrivare a queste conclusioni, uno studio condotto da un gruppo di ricercatori dell’Osservatorio Etneo dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV-OE), in collaborazione con le Università di Catania e Ferrara.
I risultati del lavoro, dal titolo Dome-like behaviour at Mt. Etna: The case of the 28 December 2014 South East Crater paroxysm, sono stati pubblicati su Scientific Reports.
“In questo lavoro, l’attività eruttiva dell’Etna – evidenzia Mario Mattia, ricercatore dell’INGV-OE – viene analizzata partendo dallo studio dell’eruzione del 28 Dicembre 2014, che aveva provocato un collasso di parte del Cratere di Sud-Est e un successivo richiamo di magma per effetto della conseguente decompressione. Da qui l’analogia del vulcano siciliano con quelli esplosivi, caratterizzati da duomi lavici semi-solidi che, collassando, causano violente esplosioni”.
Per giungere a queste conclusioni, differenti dalle precedenti interpretazioni avanzate dalla comunità scientifica che presupponevano l’intrusione di un corpo lavico a livelli superficiali (dicco), sono stati utilizzati: i dati di deformazione del suolo ottenuti per mezzo della rete di ricevitori GPS (Global Positioning System) dell’INGV-OE ad altissima precisione che permettono di rilevare anche i più piccoli rigonfiamenti dell’edificio vulcanico, legati all’arrivo di fluidi (inflation), e gli sgonfiamenti che seguono l’emissione di magma e gas (deflation); i dati di flusso dell’anidride solforosa (SO2), rilevati grazie alla rete permanente installata all’Etna, denominata FLAME e costituita da dieci spettrometri a ultravioletti che evidenziano la quantità di gas che passa attraverso i crateri sommitali; e, infine, quelli relativi alla composizione chimica delle lave eruttate e le osservazioni vulcanologiche fatte sul terreno (cima del Cratere di Sudest), nei mesi precedenti l’evento eruttivo.
“Il lavoro rivisita i dati ottenuti dal monitoraggio dell’Etna e apre la strada a una revisione degli attuali modelli interpretativi dell’attività eruttiva del vulcano siciliano e di quelli basaltici in generale, riducendo il rigido confine, finora tracciato, tra vulcani esplosivi (di tipo andesitico) e vulcani effusivi (di tipo basaltico). È, inoltre, importante la rivalutazione del ruolo dei gas che, oltre a rappresentare un fattore primario nella dinamica eruttiva, vengono proposti come vero e proprio motore termico”, prosegue Mattia.
I gas sono capaci di alterare la stabilità dei coni eruttivi, indipendentemente dalla risalita di magma, con tutte le possibili ricadute per l’analisi della pericolosità vulcanica. In questo senso, il monitoraggio vulcanico dovrebbe riconsiderare il ruolo dei gas che, contrariamente a quanto finora accettato dalla comunità scientifica, sono indipendenti dalla risalita di magma profondo.
“Infatti – conclude il ricercatore – è stato dimostrato che i gas possono, rilasciando calore, innescare processi come l’eruzione o frane di materiale lavico ricco in gas e, quindi, valanghe ardenti, ben più pericolose delle comuni colate di lava. Questo modello, realizzato per spiegare l’eruzione del 28 dicembre 2014, propone una possibile revisione e miglioramento delle attività di monitoraggio e sorveglianza vulcanica”.