Roma, 4 novembre 2020 – Tra i campanelli di allarme che devono fare sospettare una sindrome fibromialgica, vi è soprattutto un dolore muscolo scheletrico a tutto il corpo o ‘solo’ alcune parti di esso, rendendo complessa la vita lavorativa e relazionale di chi ne è interessato. Ma non è tutto: chi soffre di Fibromialgia lamenta anche crampi, rigidità mattutina, senso di affaticamento, cefalea, disturbi dell’umore e cognitivi, parestesie, insonnia, colon irritabile, e disturbi genito urinari.
Non sempre, anzi quasi mai, chi ne soffre arriva alla diagnosi in tempi brevi: a tuttora, infatti, non esistono esami di laboratorio che ne permettano l’individuazione. Varia e seriamente invalidante, la sintomatologia della sindrome fibromialgica mostra una spiccata prevalenza nel sesso femminile, nella fascia di età 20-50 anni. Ma possono esserne colpiti anche gli adolescenti e, molto più raramente, i bambini.
“Nel paziente con fibromialgia – spiega il dott. Paolo Moscato, Dirigente Medico esperto in Farmaci Biotecnologici presso la UOC di Medicina Interna dell’AOU di Salerno, nel corso del XXIII Congresso Nazionale del Collegio Reumatologi Italiani (CReI) – il dolore non è dovuto a una causa evidente nocicettiva, come può essere per esempio quello causato da un trauma o da un danno tissutale che va a stimolare i recettori del dolore. Deriva, invece, da una causa di tipo funzionale o algodisfunzionale, vale a dire legata ad un ‘errore’ nella fase di elaborazione e processazione di stimoli periferici da parte del sistema nervoso centrale. Ciò comporta una ridotta soglia del dolore, causata da un’alterata modalità di percezione dello stesso a livello del sistema nervoso centrale, agli stimoli esterni o del nostro corpo. Ciò spiega, dunque, l’iperalgesia, la percezione di dolore intensa rispetto a stimoli dolorosi lievi, e l’allodinia, la percezione di dolore in risposta a stimoli normalmente non dolorosi”.
Tuttavia, anche quando si arriva alla diagnosi il percorso terapeutico resta in salita, ma ci sono interessanti novità. “La cannabis medica rappresenta un’opzione terapeutica promettente per i pazienti con fibromialgia per la sua efficacia e il tasso relativamente basso di effetti collaterali – prosegue Moscato – I prodotti a base di cannabis sono composti da due principali componenti attivi: tetraidrocannabinolo (THC) e cannabidiolo (CBD). Il THC è la componente psicoattiva, che influenza il dolore, l’appetito, l’orientamento e le emozioni attraverso i recettori cannabinoidi (CB1 e CB2). Il CBD ha invece effetti analgesici, antinfiammatori e anti-ansia attraverso un meccanismo complesso che agisce come un modulatore allosterico negativo del recettore CB1”.
“In alcuni studi è stato riscontrato un significativo miglioramento dell’intensità del dolore e un significativo miglioramento della qualità generale della vita dei pazienti e dei sintomi correlati alla Fibromialgia dopo sei mesi di terapia con cannabis terapeutica. Considerando, inoltre, che l’uso di oppiacei è associato a un complesso processo di titolazione, a un rischio più elevato di dipendenza e a un più alto tasso di gravi effetti avversi, la cannabis medica può, dunque, rappresentare una ragionevole alternativa terapeutica”, conclude Moscato.