Al San Camillo Forlanini trattamento mini-invasivo dei fibromi uterini
Roma, 15 marzo 2016 – Ogni anno, nel Lazio vengono eseguite circa 2.200 interventi chirurgici per fibroma uterino. Ciò significa isterectomia (asportazione completa dell’utero), miomectomia laparotomica (incisione dell’addome e resezione selettiva del solo fibroma), miomectomia laparoscopica (si fanno tre fori nell’addome e si asporta un fibroma piccolo), miomectomia isteroscopica (si passa attraverso la vagina). Come per ogni intervento chirurgico, è prevista una degenza media di 4-5 giorni, con perdite di sangue, possibili complicazioni, restituzione alla normali attività nell’arco di una quindicina di giorni.
L’alternativa da noi proposta è molto meno invasiva, risparmia l’integrità dell’utero, consente una ospedalizzazione più breve (dimezzata) e un ritorno alla vita quotidiana in una settimana (dimezzata). Chiaramente si determina uno shock ischemico, per cui è importante il controllo del dolore, che è maggiore rispetto all’intervento chirurgico.
La nostra casistica parte dal 2009, con una risoluzione completa dei sintomi nel 95% dei casi (fine delle abbondanti perdite ematiche, dei dolori addominali e di altri disturbi. Nel 5% dei casi abbiamo effettuato un’embolizzazione unilaterale delle arterie uterine o non siamo riusciti ad incannulare le arterie per anomalie anatomiche dei vasi. Abbiamo avuto una percentuale di complicazioni, maggiori e minori, del 3,2% (un’embolia polmonare, curata con farmaci antitrombotici – oggi, tutte le donne, portano le calze elastiche durante i due giorni di ricovero, per prevenire tale evenienza – 2 amenorree definitive, in donne sopra i 45 anni e 6 transitorie, non superiori ai 2 mesi).
Il grosso sforzo culturale da fare è convincere i ginecologi a considerare questa opzione mininvasiva utile nella gestione delle donne con fibroma sintomatico, prima di ricorrere alla chirurgia (possono delegare ad altri la risoluzione di un sintomo, non gestibile con la sola terapia medica – non si preclude un eventuale loro atto chirurgico successivo – continuano ad avere la paziente presso il loro studio, perché devono riferire le novità – la chirurgia la riservano a problematiche oncologiche più importanti [per cui non perdono la mano]). Le pazienti tornano dal radiologo per i controlli nel tempo, con la risonanza magnetica, che il ginecologo non ha.
Altro sforzo culturale è fare arrivare il messaggio alle donne: possono evitare, in prima battuta (e forse per sempre), l’intervento chirurgico; l’alternativa è questo piccolissimo intervento endovascolare. Molto selettivo, molto periferico, molto preciso. Con l’accesso dal braccio, l’intervento assume i connotati quasi di una prestazione ambulatoriale.
Il fibroma uterino si può curare dal braccio
Il fibroma uterino, rappresenta una delle patologie ginecologiche più diffuse; ne è affetta circa il 35% della popolazione giovanile, nella fascia d’età tra i 30 e i 50 anni, con notevoli risvolti nella attività ambulatoriale degli specialisti, sia in campo diagnostico che terapeutico.
Si manifesta con tre ordini di problemi:
- alterazioni del ciclo mestruale (il ciclo si presenta più abbondante del solito e più lungo, talvolta con perdite tra due cicli; ci possono essere espulsioni di veri e propri coaguli, fino a quadri di anemia marcata, facile affaticabilità, tanto da dover ricorrere all’assunzione di ferro, per migliorare il quadro anemico);
- sintomi collegati alla compressione su organi adiacenti (tanto più è voluminoso il fibroma, tanto più esercita una compressione sulla vescica, accentuando lo stimolo ad urinare, o sul colon, ostacolando la peristalsi intestinale);
- problematiche d’infertilità e/o di difficoltà di concepimento (il fibroma può creare difficoltà all’impianto della placenta o un ostacolo alla regolare crescita del feto, tanto da facilitare un distacco precoce della placenta o un aborto).
Oltre alla terapia medica (che serve a diminuire o a bloccare il ciclo mestruale, con effetti temporanei e non risolutivi), oltre alle varie soluzioni chirurgiche, comunque invasive (si va dall’asportazione del singolo fibroma, la miomectomia, il più delle volte laparoscopica, fino all’asportazione dell’utero, o isterectomia – non esenti da complicazioni e comunque tutte le soluzioni richiedono un tempo di recupero almeno di una settimana), esiste anche una terapia mini invasiva, più dolce, più rispettosa dell’integrità fisica della donna. Non bisogna andare all’estero per trovarla. Sebbene “poco consigliata” dagli specialisti ginecologi, è effettuabile con il S.S.N. anche in Italia, a Roma, presso il Servizio di Radiologia Vascolare ed Interventistica dell’Az. Osp. “S. Camillo-Folrlanini”. Si chiama embolizzazione delle arterie uterine (UAE – Uterine Artery Embolization), che consente di eseguire un vero e proprio intervento mirato, solo sul fibroma uterino, entrando con dei piccoli cateteri, dal braccio, come se fosse un prelievo di sangue. Non ci sono quindi cicatrici esterne, né interne.
Si effettua in anestesia locale e sedazione profonda; prevede almeno una notte di ricovero ospedaliero; la paziente può tornare alle sue attività quotidiane, già nell’arco di una settimana dall’intervento mininvasivo.
Come si effettua? Si entra dall’arteria brachiale, a livello della piega del gomito, effettuando la puntura del ramo arterioso, in estrema sicurezza, sotto guida ecografica. Attraverso il forellino, s’introducono alternativamente fili guida e piccoli tubicini, per arrivare alle arterie uterine, responsabili del massiccio e vorticoso afflusso di sangue al fibroma. In ciascuna delle due arterie uterine s’iniettano particelle calibrate sul diametro del vaso arterioso da trattare, idrofiliche per penetrare più in profondità, simili a dei granelli di sabbia, che vanno a chiudere in modo selettivo solo le arterie che irrorano il fibroma. Questo fatto porta a necrosi il fibroma, privato del suo apporto di sangue, che va incontro a una riduzione di volume e a una completa cessazione dei sintomi.
L’intervento dura meno di un’ora. I costi sono nettamente inferiori a quelli chirurgici. La soddisfazione delle pazienti è elevatissima; mentre all’inizio erano titubanti, per via della novità e della scarsa informazione fornita da tanti medici, dopo il trattamento diventa una vera “procacciatrice di pazienti”, tanta è la soddisfazione e la volontà di allargare la platea di possibili usufruitrici di questo intervento.
Nelle donne più mature, che hanno già avuto dei figli, potrebbe sostituire l’isterectomia totale, contribuendo a non alterare lo stato psico-fisico della donna con un intervento tanto demolitivo. Nella giovane donna, questa opportunità va tenuta a mente e valutata caso per caso, specie se i fibromi sono multipli o molto grandi, superiori agli 8 cm. Questo limite esiste perché ancora pochi sono i dati e gli studi clinici disponibili su interventi di tale tipo, effettuati su donne desiderose di avere una gravidanza dopo l’intervento; per questo motivo, ancora non è possibile stabilire con certezza l’indicazione per questo intervento mininvasivo a tutte le donne.
I vantaggi della Radiologia Interventistica
La Radiologia Interventistica è una branca della Radiologia (oggi Diagnostica per immagini), che utilizza le apparecchiature radiologiche (ecografo, TAC, Risonanza magnetica, fluoroscopia), per effettuare interventi mininvasivi, in anestesia locale, attraverso l’inserzione di un ago nella cute. Sono interventi a tutti gli effetti, sostitutivi e alternativi al corrispettivo atto chirurgico. Rispetto a quest’ultimo, i vantaggi offerti dagli interventi di Radiologia Interventistica sono evidenti:
- la mininvasività: l’ingresso nel corpo umano avviene sempre attraverso una puntura cutanea, o in un vaso arterioso o in una vena, a seconda degli atti terapeutici da effettuare;
- l’impiego sistematico dell’anestesia locale, cutanea: solo in alcuni interventi si preferisce una sedazione profonda; eccezionalmente può esserci bisogno di un’anestesia generale, a seconda delle caratteristiche del paziente;
- la selettività d’azione: consente di arrivare in estrema periferia, senza avere la necessità di effettuare ampie aperture;
- la ridotta degenza ospedaliera: mediamente la degenza è di 1-3 notti, contro un equivalente di 3-5 notti dei corrispondenti atti chirurgici;
- i diminuiti costi di assistenza ospedaliera: non solo i costi dell’occupazione del posto letto, ma l’assenza di dover necessariamente ricorrere all’assistenza infermieristica;
- il grado di soddisfazione dei pazienti: che riescono a risolvere la problematica clinica in modo quasi impensabile, senza dolore.