Roma, 27 aprile 2022 – “Il problema non è se si sono verificati casi di epatiti acute gravi nel nostro Paese, perché questo accade ogni anno, ma se i casi che si sono verificati superano l’atteso per il periodo, quindi se c’è un problema di incidenza”. Ha risposto così Giuseppe Indolfi, epatologo del Meyer e professore associato di Pediatria all’Università di Firenze, interpellato dalla Dire in merito ai casi di epatite acuta di n.d.d. (cioè di “non definita diagnosi”, ndr) nei bambini in Italia.
Non devono quindi preoccupare? “In questo momento direi assolutamente no – ha risposto l’esperto – perché sono condizioni che noi conosciamo, ma possono essere molto gravi e quindi ovviamente ci vuole attenzione. Nel caso in cui dovessimo verificare, ma solo attraverso studi scientifici, che esiste davvero un aumento dell’incidenza, allora in quel caso dobbiamo prendere le misure che ci servono per rispondere a un problema. Ma il primo passo è capire se c’è il problema”.
Anche se in Italia finora si sono verificati 4 casi, intanto, non c’è “nulla di diverso rispetto a quanto già successo in passato. Quello che invece potrebbe essere diverso – ha spiegato Indolfi – è che, se in passato ci si attendevano 8 casi in un anno, dobbiamo verificare se questi eventuali 4 casi in quattro mesi rappresentano un aumento dell’incidenza”. E se questo dovesse essere dimostrato, solo allora “potremmo trovarci di fronte alla necessità di affrontare una situazione diversa rispetto al solito, ma non una patologia diversa – ha sottolineato l’epatologo – bensì solo una condizione epidemiologicamente diversa”.
Ma 8 casi attesi di epatite acuta grave (cioè che potrebbe richiedere il trapianto di fegato) a eziologia ignota in un anno è un dato realistico per il nostro Paese? “È abbastanza realistico – ha risposto ancora Indolfi – nel senso che se si guarda alle statistiche dei trapianti per epatite acuta grave “non-A e non-E” allora storicamente in Italia tali trapianti sono sempre stati fatti in un numero inferiore ai 10 per anno”.
Ad oggi non è ancora noto quale sia l’agente patogeno che ha provocato i casi, ma è un errore parlare di epatiti ‘mai viste prima’. “Noi categorizziamo questa epatite dal punto di vista nosologico con un termine, cioè “epatite non-A e non-E” – ha spiegato l’esperto – che significa che è un’epatite nei confronti della quale abbiamo fatto tutto quello che potevamo da un punto di vista diagnostico. Non abbiamo identificato i virus che comunemente determinano questa forma di epatite, per caratteristiche cliniche sembra un’epatite virale, però non abbiamo una diagnosi eziologica specifica. E questa è una condizione che noi conosciamo, non nuova”.
Nel mondo, secondo l’ECDC (European Centre for Disease Prevention and Control), sono 190 i casi di epatite acuta identificati nei bambini, mentre per l’Istituto superiore di Sanità, che sul tema ha messo a punto un focus, al 21 aprile i casi in bambini sono stati riportati in Belgio, Danimarca, Francia, Irlanda, Olanda, Romania, Spagna, potenzialmente in Svezia, il 19 aprile in Israele (12 casi) e il 20 aprile in Italia (4 casi).
La maggior parte dei Paesi riporta un numero di casi limitato, ma fa eccezione il Regno Unito che, sempre al 21 aprile, aveva identificato oltre 100 bambini di età inferiore a 10 anni con epatite acuta di n.d.d., di cui 8 hanno ricevuto un trapianto di fegato.
“Stando ai dati ufficiali – ha commentato Indolfi, che è anche responsabile dell’area fegato della Società europea di Gastroenterologia e consulente dell’OMS per le epatiti virali – in Inghilterra nell’ultimo mese hanno rilevato un numero di casi che sembra eccedente rispetto all’atteso di una epatite virale acuta grave. Non si tratta però di una patologia o di una condizione patologica nuova, ma di una condizione patologica che già conosciamo e diagnostichiamo anche se raramente. L’eccezionalità, in Inghilterra, sta nel fatto che ne hanno avuto un numero concentrato e apparentemente superiore rispetto all’atteso in un arco temporale abbastanza breve”.
Insomma, nasce ora la necessità di capire se “siamo di fronte a un aumento reale dell’incidenza di una patologia nota – ha detto l’epatologo – oppure ad una coincidenza di casi che si sono verificati in un arco temporale più ristretto”.
Si è parlato anche di una ipotetica correlazione con il Covid, ma su questo gli esperti concordano: “In questo momento non c’è nulla che supporti una correlazione con il Covid – ha confermato anche Indolfi – un numero di pazienti nella coorte pubblicata, che è quella che si riferisce ai 10 bambini scozzesi, aveva anche il Covid, ma se ora andassimo a fare un giro in un ospedale qualsiasi pediatrico o dell’adulto ci sarebbero bambini con problemi appendicolari che hanno anche il Covid; questo però non significa che sia stato il Covid a fargli venire l’appendicite, ma significa che c’è un’associazione casuale tra una patologia nota dell’età pediatrica, che è l’appendicite, e il Covid. In questo momento non c’è niente che faccia sospettare né che c’entri il Covid né il vaccino”.
Stando invece ad alcuni scienziati britannici, l’aumento dei casi di epatite acuta bei bambini potrebbe essere legata addirittura ai lockdown degli ultimi due anni. “Questa è un’ipotesi affascinante in cui, come già dimostrato per altri virus, si ipotizza che ci possa essere una conseguenza della mancata esperienza immunologica dei bambini che sono stati isolati – ha commentato ancora Indolfi – però credo sia più opportuno capire prima se c’è davvero un problema; poi, se ci fosse davvero un problema, allora affronteremo tutte le ipotesi nel rigore scientifico che queste ipotesi meritano. Ma in questo momento è soltanto un’ipotesi”.
Per altri virus una simile dimostrazione è stata già fatta: “Noi abbiamo avuto a dicembre un’epidemia di bronchioliti e abbiamo dimostrato e ipotizzato che i numeri erano davvero in aumento – ha fatto sapere Indolfi – e che, verosimilmente, i bambini che non si erano ammalati di bronchiolite durante il lockdown avevano rappresentato una coorte di maggiore suscettibilità e quindi quest’anno abbiamo avuto più bronchioliti. In quel caso però abbiamo prima dimostrato con i numeri che l’incremento epidemiologico era vero, poi abbiamo fatto l’ipotesi. Insomma anche questa è un’ipotesi molto affascinante, ma rimane un’ipotesi”.
Lo stesso potrebbe supporsi anche per l’influenza? Quest’anno sembra avere uno strascico più lungo rispetto agli anni precedenti: “Che i bambini si possano ammalare è stranoto, che i bambini nel periodo invernale si ammalino di più rispetto al periodo estivo è cosa certa, che ci possa essere una minore esperienza immunologica dei bambini che hanno incontrato meno agenti infettivi, e che quindi hanno lo spettro di suscettibilità maggiore, su questo non c’è dubbio. Non ne farei una questione in questo momento di virus, ma di comune esperienza immunologica. Però allo stesso tempo devo essere sincero – ha infine concluso Indolfi – faccio il pediatra ormai da diversi anni, i bambini nel periodo invernale si sono ammalati sempre tanto e sempre, indipendentemente dal lockdown. Anche in questo caso, allora, possiamo mandare un messaggio di relativa tranquillità”.
(fonte: Agenzia Dire)