Gli infettivologi SIMIT e gli epatologi AISF uniti per definire nuove strategie per far emergere il sommerso dell’Epatite C per l’eliminazione entro il 2030, ma sarà fondamentale il supporto delle istituzioni. Pronta una nuova sinergia tra i vari stakeholder che sarà presentata ne “La Sanità che vorrei…” al Ministero della Salute
Roma, 24 luglio 2023 – Rinnovare i fondi per gli screening per l’Epatite C che scadono il 31 dicembre 2023 e allargare le coorti d’età delle popolazione da sottoporre al test. Questo il messaggio principale lanciato dalla Società Italiana di Malattie Infettive e Tropicali – SIMIT e dall’Associazione Italiana per lo Studio del Fegato – AISF alla vigilia della Giornata Mondiale per le Epatiti promossa dall’Organizzazione Mondiale della Sanità come ogni anno per il 28 luglio.
Come riportato dai dati AIFA, infatti, se all’11 luglio 2022 i pazienti avviati al trattamento per l’eradicazione del virus dell’Epatite C erano 239.378, a un anno di distanza il 17 luglio 2023 sono 252.781: vi è stato un incremento di poco più di 13mila persone. Si tratta di un balzo in avanti significativo dopo la notevole flessione dovuta alla pandemia, ma non è ancora sufficiente per percorrere l’ultimo miglio necessario per l’eliminazione dell’infezione dal nostro Paese entro il 2030 come indicato dall’OMS.
Per questo serve una collaborazione tra diversi attori in campo, dai diversi specialisti coinvolti alle istituzioni. Una sinergia che sarà messa a punto nei prossimi incontri de “La Sanità che vorrei…” al Ministero della Salute, il progetto promosso da SIMIT insieme a tante altre realtà tra cui il Ministero stesso per preparare il SSN ad affrontare le prossime sfide attraverso processi di prevenzione e formazione.
Le epatiti virali come questione di salute globale
“Le epatiti virali rimangono un problema di salute globale – evidenzia il prof. Claudio Mastroianni, Presidente SIMIT – L’attenzione della comunità scientifica in questo ambito è rivolta alle epatiti virali che possono essere acquisite per via orale, come l’Epatite A e l’Epatite E, ma soprattutto a quelle che possono essere trasmesse per via parenterale: l’Epatite C, l’Epatite B, l’Epatite Delta. Per l’Epatite B l’Italia è un esempio, vista la vaccinazione obbligatoria alla nascita introdotta nel 1991, grazie alla quale il virus è quasi assente nella popolazione under 40, sebbene si riscontri ancora in altre fasce anagrafiche e in soggetti non nati in Italia. L’HCV, grazie ai nuovi farmaci antivirali ad azione diretta (DAA), si può eradicare definitivamente nel 98% delle persone, in tempi rapidi e senza effetti collaterali, ma occorre far emergere il sommerso e avviare rapidamente i pazienti al trattamento. Per l’Epatite Delta è stata recentemente approvato un nuovo farmaco specifico efficace, ma serve piena consapevolezza di questa disponibilità e un ampliamento degli screening dei soggetti con Epatite B, su cui il virus Delta si innesta; una priorità anche questa, visto che in Italia si stima che vi siano circa 10mila persone affette da questo virus, il più rapido nel progredire fino a provocare cirrosi ed epatocarcinoma”.
Ampliare gli screening per eliminare l’HCV
“Gli screening per far emergere il sommerso dei casi di Epatite C rappresentano una buona prassi che negli scorsi anni ha portato l’Italia in linea con l’obiettivo dell’OMS per l’eliminazione del virus entro il 2030, come dimostra il bilancio complessivo degli oltre 250mila trattamenti effettuati fino ad oggi – sottolinea il prof. Massimo Andreoni, Direttore Scientifico SIMIT – La disponibilità dei 71,5 milioni di euro stanziati nel 2020 ha dato una grande opportunità, purtroppo frenata dalla pandemia. La proroga fino al 31 dicembre 2023 è stata utile per incrementare il numero delle diagnosi, ma considerando le inadempienze di diverse regioni, colpite dagli strascichi del Covid-19 e da altre contingenze, è auspicabile un’ulteriore proroga di altri due anni e un allargamento delle popolazioni coinvolte, rivolgendosi non solo a tossicodipendenti, detenuti e ai nati tra il 1969 e il 1989, ma anche alle coorti d’età precedenti, con riferimento almeno ai nati tra il ’48 e il ’68, in cui si può annidare il virus. Solo con un approccio così capillare sarà possibile curare centinaia di migliaia di persone ed eliminare l’Epatite C nel nostro Paese entro il 2030”.
Le strategie per l’eradicazione
“Due sono le strade che gli specialisti di tutto il mondo stanno percorrendo per contrastare il problema delle epatiti: da un lato, test diagnostici e percorsi di avvio alla cura, sempre più rapidi e semplificati, da svolgersi all’interno dei centri epatologici; dall’altro, attività di screening alla scoperta del sommerso – spiega la prof.ssa Vincenza Calvaruso, Segretario Nazionale AISF – Il problema, infatti, è che spesso non è facile riconoscere l’insorgenza della malattia, specialmente nei soggetti asintomatici. Per tale ragione, si effettuano attività di screening soprattutto nelle categorie a rischio, vale a dire la popolazione nelle carceri e i soggetti con dipendenza da droga per via endovenosa, nonché tra quelli nati tra il 1969 e il 1989, sebbene noi specialisti chiediamo di ampliare tale fascia d’età, coinvolgendo tutti i soggetti maggiorenni nati dal 1943 in poi”.
La sfida dell’OMS, per cui entro il 2030 si sarebbe dovuta raggiungere l’eradicazione dell’HCV, è diventata tuttavia più complessa e lontana. “Se fino al 2019 i 36mila trattamenti raggiunti in un anno facevano ben sperare sul raggiungimento dell’obiettivo proposto dall’OMS, il fatto che negli anni successivi non siano stati più di 20mila, complice anche la pandemia, rendono l’obiettivo meno raggiungibile. Occorre quindi, ancora di più, puntare sugli screening, sollecitando tutte quelle regioni che ne sono sprovvisti ad attivarli, e alla semplificazione dell’accesso alle terapie. Questo secondo punto, infatti, inciderebbe positivamente su due problematiche: frenerebbe la progressione della malattia verso la fase avanzata, sino allo stato di cirrosi ed epatocarcinoma, con ovvie conseguenze sanitarie ed economiche, ma impatterebbe anche sulla comunità, perché ridurrebbe a sua volta la possibilità di contagio” conclude la prof.ssa Calvaruso.