Ebola, la Peste siamo noi

Woman and son wearing face masks

La Peste è fra noi, nuovamente, con il suo portato di morte, d’angoscia e di colpa.
L’epidemia di Ebola, esplosa in Africa occidentale, non si arresta e il bilancio di vittime cresce di continuo. L’Oms ha stimato al momento cinquemila vittime e diecimila casi, ma in Liberia, Sierra Leone e Nuova Guinea le cifre aumentano giorno dopo giorno.

La Peste è tornata. L’antico flagello che ha falciato nei secoli vite e sconvolto paesaggi è riesploso. Nella sua storia ha piagato l’umanità, prendendo con sé un gran numero di vite umane.
Si pensi ai milioni di morti del 541 o alle vite rubate dalla “Morte nera” del XIV secolo, alla “Peste di San Carlo” o alla pestilenza narrata dal Manzoni nei Promessi sposi e nella Storia della Colonna infame.
E adesso la Peste è qui.

Ci sarà in questo qualcosa di fatale? Sarà valida l’idea secondo cui la Peste è una maledizione che grava sull’umanità? E perché non smette di visitarci se la biologia e la medicina continuano a studiare agenti, vettori e terminali del contagio? Sarà solo un fenomeno della natura oppure è un destino, una necessità dell’umano?
Di sicuro, nella sua terribilità, la Peste irrompe sulla scena del mondo con tutta la sua simbologia, mostrandosi solo in parte comprensibile.

È inevitabile che così priva di fine e d’intenzione, sia identificata con il male stesso, con il male assoluto.
Colpisce la sua indifferenza, la sua accidentalità, il suo gratuito scivolare nell’abisso. E niente come la Peste si offre come allegoria della colpa.
“La peste sono io”, dice Edipo, definendosi il male dei mali, cosciente della sua profonda condizione di colpa. Edipo avverte quanto sia grande il peso da sopportare, riconoscendo come le sciagure partano da lui e lui solo dovrà espiarle.
È qui che il tragico si compie.

Molti studiosi hanno riflettuto sull’imperscrutabilità della Peste, chiedendosi, prima di ogni cosa, perché improvvisamente è fra noi.
Domanda inevitabile, che ne suscita altre: come mai la Peste, che pur dipende da circostanze storiche, spesso le trascende, manifestandosi nei luoghi e nei tempi più disparati, con la sua maschera senza volto e senza contenuto?
Giorgio Givone, filosofo e docente dell’Università di Firenze, giunge a sostenere che la Peste è fra noi perché è già da sempre in noi: “Siamo il suo vaccino e i suoi vettori, noi siamo la peste e l’antidoto alla peste”.

Il morbo, attraverso il suo diabolico camuffamento, si presenta spesso sotto forma di canto, di fabula e di metafora.
Albert Camus, grande scrittore francese, fa dire al protagonista del suo romanzo, La peste: “Siamo tutti appestati”. Intendendo con ciò che lo si era ancor prima che la Peste si presentasse. In altri termini, siamo tutti portatori di contagio e ognuno dovrà assumersi la responsabilità di un destino comune.
Un modo gentile per affermare che non esiste altro modo di immunizzarsi se non quello di esporsi al contagio.
Il bacillo non muore, sostiene il protagonista, si nasconde per anni in qualche anfratto per poi ridestarsi e tornare a infettare.

La Peste è il male che si disocculta e si palesa a chi non intende vederlo.
Ritorna così la questione della verità, della conoscenza e della colpa, che Camus lascia aperta, ripristinando l’idea di giustizia e di espiazione.
C’è dell’altro però e lo evidenzia Antonin Artaud, investigando l’aspetto vulcanico ed eruttivo della Peste.
Il drammaturgo ritiene che il corpo infettato e squassato spinga i suoi umori impazziti verso l’esterno. Si creerebbero, in questo modo, bocche infuocate e vesciche, attraverso cui il marciume è spurgato. Immagine terribile e metafora forte che mostrano il tema della purificazione e dell’energia liberatoria.

La Peste non sarebbe altro che l’aspetto pauroso della libertà.
Artaud, passando dal piano della realtà a quello della rappresentazione, dice che il teatro deve raccontare il mondo nelle sue verità più inconfessabili e più velenose.
Il teatro nasce con la Peste. I suoi gesti estremi, le sue immagini, i suoi incantamenti dovranno indurre le forze più distruttive dell’anima a trovare espressione nella realtà.
Il teatro di Artaud, come la Peste, spinge gli uomini ad abbandonare la loro maschera e a mettere a nudo le loro menzogne.
Sarà per questo che non c’è altro bene che conoscere il male.

 

 

Roberto Perrotti

Roberto Perrotti

Psicanalista. Responsabile Diagnosi e Clinica Psicologica UOSM Puglianello ASL BN 1. Giornalista e scrittore. Autore Gruppo Editoriale Guida

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