Lo studio, pubblicato sulla rivista Molecular Autism dai ricercatori di Sapienza Università di Roma, Istituto di scienze e tecnologie della cognizione del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Istc), Fondazione Santa Lucia Irccs, Harvard University e University of Cambridge, è un importante tassello per la ricostruzione del background genetico dell’autismo
Roma, 10 novembre 2020 – Più di un terzo degli adulti autistici senza disabilità intellettiva sono prosopagnosici, ovvero hanno una difficoltà clinica nel riconoscere e memorizzare le altre persone dal loro volto, secondo uno studio pubblicato sulla rivista Molecular Autism.
I ricercatori di Sapienza Università di Roma, Istituto di scienze e tecnologie della cognizione del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Istc), Irccs Fondazione Santa Lucia, Harvard University e University of Cambridge, hanno stimato la prevalenza della prosopagnosia e le sue caratteristiche in un gruppo di 80 partecipanti autistici provenienti da Italia, Stati Uniti e Regno Unito e un relativo gruppo di controllo di partecipanti neurotipici.
Lo studio ha inoltre indagato le caratteristiche di tale difficoltà nell’autismo e le relative associazioni con la severità sintomatologica, i tratti di personalità e le abilità sociali, proponendo il riconoscimento dell’identità come un potenziale endofenotipo dell’autismo.
“Mentre la prosopagnosia evolutiva riguarda il 2-3% della popolazione generale, abbiamo trovato la prima evidenza che il 36% degli adulti autistici senza disabilità intellettiva ne soffre”, dicono Ilaria Minio-Paluello e Giuseppina Porciello, autori principali dello studio.
“Inoltre abbiamo visto che i due gruppi di individui – autistici prosopagnosici e non – non differivano per gravità sintomatologica, numero di tratti autistici, intelligenza generale, memoria, tratti empatici e alessitimia. Questo ci fa ipotizzare quindi che le difficoltà nel riconoscimento individuale dei volti potrebbero non costituire un legame causale tra i geni e l’autismo, ma potrebbero piuttosto contribuire al background genetico dell’autismo”.
Analisi ulteriori hanno rivelato che solo nel gruppo di persone autistiche prosopagnosiche il riconoscimento dell’identità dal volto era collegato con la capacità di riconoscere gli stati mentali di un’altra persona dallo sguardo, entrambe abilità essenziali per orientarsi nel mondo sociale.
“È poco probabile che questa associazione sia dovuta a una ridotta capacità di riconoscere i volti, in quanto le persone non autistiche con prosopagnosia evolutiva non hanno difficoltà nel decifrare gli stati mentali altrui guardando la regione oculare – aggiunge Minio-Paluello – Pensiamo invece che la ridotta attenzione agli occhi potrebbe avere un effetto sia sul riconoscimento dell’identità che degli stati mentali. La probabilità che l’identità facciale ed il riconoscimento degli stati mentali abbiano un sottostante meccanismo neurobiologico comune aumenta la rilevanza potenziale della memoria per i volti come endofenotipo dell’autismo”.
Numerosi studi precedenti avevano mostrato che, in modo simile alle persone neurotipiche, le persone autistiche hanno più difficoltà a processare i volti mostrati a testa in giù (effetto dell’inversione). “Nel nostro lavoro invece abbiamo dimostrato che gli autistici prosopagnosici non hanno il tipico effetto di inversione quando devono memorizzare volti, mentre ciò avviene quando i volti restano visibili – evidenzia Porciello – Questo, insieme con la relazione tra la memoria per i volti e la comprensione degli stati mentali altrui, è un altro esempio in cui i prosopagnosici autistici differiscono dai prosopagnosici evolutivi non autistici”.
“Le persone autistiche sono molto diverse le une dalle altre nelle loro caratteristiche cliniche, eziologiche e genetiche, e questo rende difficile tanto individuare le cause quanto gli interventi efficaci – conclude Minio-Paluello – Crediamo che le differenze nella capacità di riconoscere l’identità individuale dai volti, data la sua ereditabilità e indipendenza dall’intelligenza generale, saranno utili nell’ affrontare l’elevata eterogeneità dell’autismo, permettendo di individuare sottogruppi significativi”.
Ulteriori studi – sottolineano le autrici – saranno necessari per verificare se i risultati ottenuti sul campione coinvolto possano essere estesi anche alle tipologie di persone autistiche non rappresentate, come bambini, donne e persone con disabilità intellettiva.