Intervista al prof. Marco Perrone, Cardiologo presso l’Università degli Studi di Tor Vergata
Roma, 19 luglio 2022 – La diagnostica cardiovascolare è sicuramente uno dei campi che negli ultimi anni hanno avuto un incremento tecnologico molto importante. Oggi la diagnostica cardiovascolare si basa su due principali attività: le metodiche di imaging e le metodiche di laboratorio.
Le metodiche di imaging hanno permesso di ottenere grandi risultati, basti pensare alla ricostruzione tridimensionale di una valvola mitrale che permette di fornire informazioni precise su dove e come meglio intervenire, o alle metodiche di TC e RM cardiaca, fino ad arrivare alla PET cardiaca che può essere applicata anche alle malattie cardiovascolari, non solo in campo oncologico: essa permette di individuare esattamente l’area infartuata del cuore.
Ma la vera rivoluzione nella diagnostica cardiovascolare è sicuramente la diagnostica di laboratorio rappresentata dai cosiddetti biomarcatori e l’utilizzo della troponina cardiaca, biomarcatore cardiospecifico nonché marcatore gold standard per la diagnosi di infarto cardiaco e non solo. Infatti, oggi la troponina cardiaca, misurata con metodiche ad alta sensibilità, è utilizzata anche per la diagnosi di altre patologie cardiovascolari o di complicanze cardiache da parte di altre malattie extra cardiache.
Marco Perrone, Cardiologo presso l’Università degli Studi di Tor Vergata, nella seconda giornata della “MIDSUMMER SCHOOL 2022 – Disruptive technology e medicina di precisione” di Motore Sanità, ha fatto il punto sulla rivoluzione in corso che travolge la diagnostica cardiovascolare.
Prof. Perrone, a cosa stiamo assistendo?
“La troponina cardiaca misurata con metodiche ad alta sensibilità ci ha permesso di studiare, oltre al già citato infarto, quadri fisiopatologici di interessamento cardiaco prima meno noti. Penso per esempio al suo grande contributo nella cardiologia dello sport: abbiamo scoperto grazie a queste metodiche ad alta sensibilità le differenze nel rilascio di questo biomarcatore tra i pazienti cardiopatici e gli atleti professionisti nello sport. La troponina è inoltre fondamentale anche per la diagnosi di complicanze cardiache collegate al Covid-19 facendoci comprendere che questo virus può colpire anche il cuore. Ma non solo nei pazienti con Covid-19 è stata utile la troponina cardiaca”.
In quale altro ambito?
“Abbiamo visto che la troponina cardiaca è importante anche nei quadri di pazienti oncologici che sono sottoposti a radio o chemioterapia. È stato evidenziato che quando questi pazienti subiscono dei trattamenti appunto chemio o radioterapici (ad esempio per tumori ematologici, della mammella, del polmone) può esserci un aumento patologico della troponina cardiaca che ci guida verso una nuova frontiera, la cardio-oncologia. Ma c’è di più”.
Cos’altro?
“I pazienti ad alto rischio cardiovascolare sottoposti a chirurgia non cardiaca possono incorrere a complicanze fino alla morte duranti questi interventi maggiori. Recenti studi hanno dimostrato che una misurazione combinata di troponina cardiaca e dei peptidi natriuretici (altro biomarcatore cardiospecifico) può aiutarci a stimare il rischio cardiovascolare pre-intervento e permettere ai medici di applicare le dovute precauzioni per portare a termine l’intervento chirurgico in assoluta sicurezza per il paziente. Insomma, oggi abbiamo a disposizione una serie di biomarcatori molecolari che ci permettono di studiare sempre meglio le patologie cardiovascolari, di mettere in campo la più adeguata prevenzione per il trattamento della patologia e di avere una guida adeguata alle terapie per il paziente”.
Infine, quali novità ci sono nell’ambito della genomica cardiovascolare?
“Grazie al genoma umano e alla genomica cardiovascolare, negli ultimi 5-10 anni siamo riusciti a caratterizzare malattie che fino a qualche anno fa venivano considerate malattie rare o malattie misconosciute, oggi siamo riusciti a dare un target preciso, un gene o più geni che sono correlati alla malattia e questo è molto importante per la diagnosi precoce e anche per stimare adeguatamente la familiarità. Concludo dicendo che c’è bisogno di una grande integrazione tra i cardiologi e la diagnostica cardiovascolare di laboratorio, ma non bisogna mai dimenticare che i biomarcatori ci aiutano nella nostra attività clinica ma il paziente deve essere sempre al centro della nostra attenzione, quindi si inizia sempre da una adeguata ed attenta visita clinica a cui poi accompagniamo l’utilizzo dei biomarcatori”.