Dopo l’intervento, per il 70% dei diabetici basta la sola terapia farmacologica orale per il controllo glicemico
Firenze, 26 giugno 2017 – Le alterazioni metaboliche associate al diabete comportano un significativo incremento della morbidità e della mortalità, soprattutto cardiovascolare. Nella stragrande maggioranza dei casi, il diabete tipo 2 si associa ad eccedenza ponderale tanto che, negli ultimi anni, è stato coniato il termine di ‘diabesità’. Di conseguenza appare sempre più evidente che, una volta escluse malattie endocrine che possano generare aumento di peso e alterazioni glicemiche, la cura del diabete non può prescindere dalla cura dell’obesità.
Dal greco barus ossia peso, la chirurgia bariatrica si effettua per trattare chirurgicamente l’obesità – in Italia poco più di 50 centri specializzati con almeno 50/100 interventi mese, da Nord a Sud – e già da qualche tempo può chiamarsi chirurgia metabolica poiché ha dimostrato la sua efficacia nel migliorare il controllo glicemico nei pazienti diabetici, indipendentemente dall’effetto sul peso. “Infatti, la remissione del diabete, ossia il ritorno dei valori della glicemia e dell’emoglobina glicolisata nei limiti della norma – sottolinea la prof.ssa Geltrude Mingrone, direttore della UOC Patologie dell’obesità al Policlinico Universitario A. Gemelli in occasione della Lettura magistrale ‘Dalla chirurgia bariatrica alla chirurgia metabolica: i risultati a lungo termine’ con cui si è aperto oggi a Firenze il II° Congresso nazionale SINuC – si osserva già pochi giorni dopo l’intervento chirurgico, quando il cambiamento di peso è minimo. Dopo chirurgia metabolica, in particolare bypass gastrico e diversione bilio-pancreatica, il diabete rimane in remissione almeno fino a 5 anni in circa il 40% dei pazienti, i quali perciò non hanno più bisogno di terapia farmacologica. Nel 70% ed oltre dei pazienti la sola terapia farmacologica orale consente un ottimo controllo glicemico ed anzi, le complicanze micro e macrovascolari del diabete si presentano largamente ridotte rispetto ai soggetti in terapia medica”.
“Il bypass del duodeno e del digiuno, infatti – prosegue la Mingrone – riduce la secrezione di ormoni che inducono insulino-resistenza e che rappresenta, com’è noto, il difetto maggiore nel diabete di tipo 2 o dell’adulto. Inoltre, dopo chirurgia metabolica la secrezione intestinale di GLP1, un ormone che riduce l’appetito e che migliora la secrezione insulinica nella prima fase, è molto aumentata contribuendo al miglioramento del controllo glicemico. Infine, l’identificazione degli ormoni intestinali che inducono insulino-resistenza permetterà in futuro di individuare e mettere a punto nuovi farmaci in affiancamento o in parziale sostituzione dell’approccio chirurgico metabolico”.
Sulla base di tali evidenze, le associazioni diabetologiche internazionali e nazionali sono giunte perciò ad un accordo secondo il quale:
La chirurgia metabolica dovrebbe essere raccomandata per trattare il diabete di tipo 2 in pazienti con obesità di classe III (BMI ≥40 kg/m2) e nei pazienti con obesità di classe II (BMI 35.0-39.9 kg/m2) quando non si riesca a controllare adeguatamente l’iperglicemia modificando lo stile di vita e con una terapia medica ottimale;
La chirurgia metabolica dovrebbe essere presa in considerazione in pazienti con diabete di tipo 2 e BMI pari a 35-40 kg/m2 con diabete in buon controllo glicemico; con BMI 30.0-34.9 kg/m2 se l’iperglicemia è controllata in modo inadeguato nonostante la somministrazione di farmaci per via orale o iniettiva.
“Ora sappiamo che i notevoli effetti della chirurgia metabolica non sono solo una conseguenza della perdita di peso – scrive Francesco Rubino (King’s College di Londra e primo autore delle linee guida) in ‘Medical Research. Time to think differently about diabetes’ pubblicato su Nature, 2016 – I cambiamenti nell’anatomia gastrointestinale possono influenzare direttamente l’omeostasi del glucosio. Ci sono inoltre studi che suggeriscono come l’intervento chirurgico potrebbe aumentare la produzione di alcuni acidi biliari che rendono le cellule più sensibili all’insulina, o aumentare l’uptake del glucosio da parte delle stesse cellule gastrointestinali, abbassando così i livelli della glicemia. Sembrano inoltre giocare un ruolo anche i cambiamenti indotti dall’intervento chirurgico sul microbiota intestinale”.
Ricordiamo che il BMI – Body Mass Index o Indice di Massa Corporeo – sta ad indicare il rapporto tra peso e altezza al quadrato: se supera i 25 kg/m2 è indice di sovrappeso mentre se pari o superiore a 30, di obesità. Altrettanto importante è la misura del girovita. Anzi, il calcolo del rapporto tra circonferenza di vita e altezza di una persona sembra essere il modo più preciso ed efficace per identificare se si è o meno a rischio di obesità nella pratica clinica, secondo uno studio condotto da Leeds Beckett University.
La ricerca, “Prediction of whole-body fat percentage and visceral adipose tissue mass from five anthropometric variables” pubblicata a giugno sulla rivista Plos One conferma l’attenzione alla circonferenza vita, misura che registra in particolare il rapporto tra l’obesità viscerale e il rischio di morbilità e mortalità. Si considerano obesi gli uomini con girovita uguale o superiore a 102 cm, mentre per le donne il valore è di 88 centimetri.
Eppure, a fronte dei circa 600 mila pazienti che ne avrebbero bisogno, sono solo 15 mila gli interventi di chirurgia metabolica che ogni anno vengono effettuati in Italia, dove si stima che l’1% sia colpito da obesità conclamata riconosciuta dal Servizio Sanitario Nazionale e causa di patologie associate a carico del cuore, dell’apparato muscolo-scheletrico, dei grandi vasi e del sistema metabolico (diabete, ipertensione, malattie polmonari, gravi artriti, ecc.) oltre che mortalità.
Con la chirurgia metabolica, dunque, si può assicurare una più soddisfacente e sana qualità di vita per i pazienti ma anche una riduzione dei costi in terapie farmacologiche per il Servizio sanitario nazionale.