La depressione secondo il dizionario di Psichiatria Neurolexicon (Riccardo Torta e Francesco Monaco) è una riduzione del tono dell’umore qualitativamente diverso dal comune senso di tristezza o di lutto.
Essere depresso significa sentire un dolore morale, provare angoscia, malessere diffuso, stanchezza profonda. I sintomi più frequenti della depressione sono infatti la neurastenia, la facile esauribilità, l’anedonia (perdita del piacere), l’anergia (perdita dell’energia), la perdita delle motivazioni e dell’interesse, la difficoltà a concentrarsi, il rallentamento motorio. La visione di sé e del mondo è pessimistica.
Personalmente ho incontrato molti depressi, tutti diversi per storia e per evoluzione. Il mio maestro, il dott. Renato Russo, raccontava che il depresso vive ripiegato nel passato. Incapace di emergere dai ricordi che affastellano la sua mente, il malato vive le dimensioni spazio-temporali in modo alterato. Il presente è insopportabile e il futuro non esiste. Stanco di giorno, inquieto di notte, il paziente migliora solo quando riesce a dimenticare.
Negli anni sessanta andava di moda la “terapia del sonno” a base di morfina e di scopolamina che alienava per qualche giorno la memoria come l’elettroshock. Queste terapie erano utilizzate nelle cliniche specializzate soprattutto quando esistevano seri pericoli di suicidio. Al risveglio i pazienti sembravano rianimati, migliorati. Alcuni presentavano un fatuo sorriso per il semplice motivo che avevano dimenticato di “uccidersi”. Quando poi recuperavano la memoria, riemergeva il dolore che non era legato semplicemente alla perdita dell’energia giovanile, delle sue speranze, dei sogni, ma all’idea che la vita non ha più senso. Il paziente sente l’insignificanza dell’esistenza, sente di essere uno sconfitto, di aver fallito, di essere un peso. La morte rappresenta ai suoi occhi l’unica soluzione.
La perdita di senso isola il paziente dalla famiglia. La malinconia toglie la parola. L’uomo perde i rapporti e le relazioni. Dice lo psicanalista Umberto Galimberti che “quando il silenzio diventa assoluto la tristezza inizia a esprimersi con gesti di rottura (autodistruzione, autolesionismo, tentativi di suicidio) da un mondo ormai incomprensibile e intollerabile”. Il depresso non ha più una vita ordinaria fatta di lavoro, di famiglia, di relazioni umane, di incontri e scambi. È invertito il sistema simbolico della morte e della vita.
Dico subito che i farmaci antidepressivi in questa fase aiutano molto a risollevare il tono dell’umore. Ma quando il dinamismo vitale si riprende è necessario associare un ascolto, un sostegno psicologico, una presenza calda e comprensiva. L’anestesia indotta dal farmaco non può essere mai sufficiente per risolvere la depressione, che come tutte le crisi deve diventare una occasione per la crescita ed il cambiamento.
A questo punto può intervenire la “parola” che, quando è autentica, è l’unico mezzo per prendere coscienza della propria condizione esistenziale, della responsabilità e del proprio impegno a difendere una vita che è sempre un bene, un dono da tutelare e proteggere. I farmaci, invece, anche se tolgono la tristezza, desertificano il cuore anche dalle emozioni, dagli innamoramenti, dagli affetti. Nei gruppi di auto-mutuo aiuto il depresso ha la possibilità di essere ascoltato da chi come lui si è ammalato e ha superato grazie alla calda presenza degli altri la propria crisi.
In questa testimonianza, Antonio, un depresso che aveva interrotto la terapia ed era ricaduto in una disperazione talmente profonda (effetto dumping – rimbalzo) da tentare più volte il suicidio (tre volte è stato ricoverato in rianimazione). Adesso, grazie al gruppo Antonio non vuole più morire, perché ha compreso che solo colui che ha il coraggio di vivere sino in fondo l’insignificanza dell’esistenza è all’altezza di quel dialogo che sollevando lo sguardo dal proprio dolore riconosce quello dell’altro.
LA TESTIMONIANZA
“Ho tentato il suicidio tre volte a causa della depressione”
Mi chiamo Antonio, le radici della mia “storia” affondano in un passato dove la mia famiglia ha avuto come protagonista un uomo, mio padre, che preso dal suo egoismo ha fatto da “padrone”. Lui usava spesso violenza nei confronti sia di mia madre che verso i miei fratelli. Fino all’età di quattordici anni è stato un “vissuto” molto turbolento, quando rientrava eravamo tutti terrorizzati solo alla vista della sua presenza. Era un uomo crudo, privo di sentimenti verso noi familiari, ma quando stava con gli altri cambiava “volto”, improvvisamente, come quasi per magia diventava una persona per bene. Fatto sta che nel 1978/79, dopo essermi sposato, me ne andai in Svizzera, dove ho lavorato per circa venti anni come portiere di notte in un albergo.
Nasce una figlia, che viene allevata in Italia dai nonni mentre io e mia moglie, preoccupati per la sua lontananza, cercavamo conforto l’uno con l’altra. Entrambi dovevamo lavorare: io portiere, lei in lavanderia. Successe che nel ‘98 l’albergo chiuse e noi restammo senza lavoro.
Cominciai ad avvertire i primi malesseri, preoccupato sia per la mia famiglia, sia per me stesso, visto che anche la schiena mi creava problemi. A quel punto mi rivolsi ad una clinica specializzata, ma secondo il parere dei medici potevo lavorare al 100%; non credettero al mio problema, e allora, tramite il medico di famiglia, mi rivolsi ad un’altra clinica. Lì feci riabilitazione e alla fine dei 30 giorni mi fu riconosciuto un mal di schiena che mi permetteva di lavorare, ma non potevo alzare pesi superiori ai 30 kg.
In questo stato non riuscivo a trovare nuovi impieghi e mi sentivo sempre più depresso, fino al punto che dovetti rivolgermi ad una clinica psichiatrica, dove stetti ricoverato cinque mesi. A quel punto ebbi la possibilità di ritornare in Italia e riunire finalmente la famiglia. All’inizio “sembrava” che tutto andasse per il meglio, ma pian piano mi ritrovai sotto una forma depressiva profonda, a tal punto da indurmi al tentato suicidio per ben tre volte ingerendo grosse quantità di farmaci.
Da allora ho subìto diversi ricoveri, ma resta il fatto che questa malattia evolve sempre più, tant’è vero che anche mia figlia avverte quando l’apatia ha preso il sopravvento in me; ed è questa la battaglia che sto cercando di affrontare attraverso il Gruppo di Auto Mutuo Aiuto del dott. Vergineo.