Sorprende il gran numero di persone che, in questi anni, affollano sentieri millenari, che giungono in luoghi dal forte valore simbolico, lungo boschi e pianori.
Gli itinerari si muovono seguendo il Cammino Francese o quello del Norte, il Primitivo o la via Francigena, la rotta per Assisi o quella per Finisterra, percorsi in bici oppure a piedi e solo di rado a cavallo. Il cammino più frequentato rimane quello di Santiago, battuto ogni anno da duecentomila pellegrini, disposti a tutto, pur di visitare il sepolcro dell’apostolo Giacomo.
Perché dunque tanto cammino, tanto impulso al movimento. Una ragione, pensiamo, sia uno stato di malessere generale, una sottile inquietudine che chiede senso, che attende risposta.
Mettersi in cammino non è forse un preambolo, un preludio a qualcosa che dovrebbe apparire, accadere. Quando si ritorna da un viaggio si apre il bagaglio e vengono fuori cose che si era dimenticato di aver riposto. Ed è così che il viaggio ricomincia, allo stesso modo dell’esistenza.
Lungo il cammino si avverte spesso la presenza dell’ignoto e la necessità di una casa, ma si è randagi, perennemente ospiti, e allora si comprende che possedere una casa è impossibile, è consentito soltanto sostarvi e abitarla il tempo necessario.
Camminare offre l’opportunità di una ricerca continua d’identità, le strade del mondo sono percorse per meglio delineare i confini della personalità. In ogni odissea che si rispetti si affrontano le peripezie dell’universo allo scopo di restituire significato all’esistenza. È nel confronto con le vertigini, del resto, che si riscopre la propria verità, dopo di che si ritorna a casa, questa volta, in una casa molto diversa da quella lasciata.
Si intraprende il cammino spesso in uno stato di precarietà e d’incompletezza, nel suo corso ci si abbandona al mondo, disgregandosi ancor più. Può accadere a volte di riconoscersi e nei casi migliori di ritrovarsi. Alcune cose cadranno, “si perderanno per strada”, altre si incontreranno, si ricomporranno.
Il Cammino di Santiago, invero, ebbe la sua riscoperta proprio nell’anno Mille, epoca in cui regnava una profonda incertezza psicologica e sociale. Masse di persone in quei secoli si trasferivano di continuo alla ricerca di risposte alle proprie paure. Numerosi pellegrini abbandonavano ogni cosa pur di raggiungere Roma, Gerusalemme o Santiago, in un viaggio ineffabile, che spesso non prevedeva ritorno. Una mania collettiva parve cogliere i più e rasentò, in alcuni suoi aspetti, una psicosi di massa. L’ampia partecipazione alle prime crociate fu, infatti, letta anche in questa luce.
Il camminante è dunque disposto a “non aver dimora” pur di seguire una chiamata e giungere in un luogo che ritiene produca senso. Egli può presentarsi come un mistico girovago o come un vagabondo solitario, in ogni caso seguirà i segni di un Dio, che sia della Natura o della Storia, poco importa.
Nell’esperienza errabonda del cammino, ritorna alla mente quella dei Benedettini, monaci, fra gli altri.
Vagolanti e girovaghi, che ospitati in monasteri sempre nuovi, seguivano una sorta di peregrinatio individuale, esperienza che assunse in seguito un valore evangelico ed ascetico. Come dimenticare poi le piccole comunità ambulanti e mendicanti dei Francescani, che non smettevano di trasferirsi per meditare. Francesco, impareggiabile viandante e psicologo, riteneva che il cammino fosse un chiaro strumento di ricerca psicologica.
Tale investigazione può assumere però toni parossistici in chi vive il disagio e la sofferenza come un disturbo. Si pensi agli psicotici che si muovono di continuo e sembrano aver scelto se stessi come meta, anche se questa, per disgrazia si sposta sempre in avanti, o all’agitazione psicomotoria dell’ansioso, ai suoi passi scomposti su di una strada che si restringe sempre più, o ai movimenti compulsivi di un ossessivo, che cerca così sollievo dai suoi pensieri martellanti.
Cos’è la psicoterapia se non un metaforico cammino che porta alla consapevolezza dei lati oscuri della persona.
Il cammino freudiano, in massima sintesi, conduce il paziente dall’Es (inconscio) all’Io (coscienza), quello Junghiano verso la realizzazione del Sé (principio unificante della psiche).
Camminare non è solo meditare, è anche raccontare, sarà la scrittura a organizzare il trasloco, a disfare, a smontare e aggiungere parti, raccogliendo lungo la strada nuove storie. Il linguaggio rispecchia appunto il movimento del piede. Per questo esiste una letteratura stanziale e una nomade. Appartengono a questa ultima due scrittori che non smisero mai di camminare per fuggire all’inquietudine e raggiungere se stessi. Il compito fu affrontato con tale impegno che morirono camminando, l’uno nella neve, l’altro sui Pirenei, erano Robert Walser e Walter Benjamin.
Il pensiero camminante a volte sfoglia pagine angosciose, senza fretta però, spesso senza meta, Thich Nhat Hanh dice che nell’iniziare il cammino si è già arrivati, perché la meta è ad ogni passo.