A cura del dott. Fausto D’Agostino, Anestesia Rianimazione, Policlinico “Campus Bio-Medico” di Roma
Roma, 30 novembre 2020 – Questo cruciale periodo di crisi sanitaria offre la possibilità di sottolineare quanto poco si sia fatto negli scorsi anni per agevolare l’operato dell’anestesista, che si trova a dover sopperire a una carenza che non si può più ignorare: troppi giovani laureati in medicina non sono riusciti ad accedere alle scuole di specializzazione per l’esiguità dei posti a disposizione. Ora assistiamo a una disperata “chiamata alle armi”: dagli specialisti ormai in pensione, fino agli specializzandi, che sono tutt’ora in prima linea, per sopperire alla carenza di medici di cui si parla ormai da anni.
Già prima dell’avvento del Covid-19, la situazione in ospedale era critica, soprattutto per la carenza di specialisti rianimatori, che risultano fondamentali per qualunque struttura ospedaliera, essendo figure necessarie per il lavoro di molteplici branche mediche, in primis per quelle chirurgiche.
Si è partiti da una situazione sanitaria già carente per arrivare ad una crisi senza precedenti. Sbirciando fuori dall’Italia si può notare (con grande amarezza per chi ama la propria nazione e sceglie di servirla e non abbandonarla) quanto l’operato medico sia valorizzato, anche in termini economici. Questa pandemia fornisce l’occasione per evidenziare la necessità di giusti riconoscimenti per gli anestesisti, urgentisti e infermieri che, soprattutto in questo periodo, lavorano in condizioni di elevato stress psicofisico.
Lavorare in un reparto Covid vuol dire indossare visiera, mascherina FFP3, tripli guanti, calzari e tuta non traspirante ad ogni turno di lavoro, avendo l’accortezza di bere, mangiare qualcosa e andare in bagno prima, altrimenti si resta ‘incastrati’ in quei presidi tanto essenziali quanto soffocanti. Significa passare dalle 6 ore di un turno normale alle 12 in questo modo, facendo attenzione che la tuta non si strappi mentre si maneggiano siringhe e aghi, e si cerca di dare conforto ai malati che di noi vedono solo gli occhi.
Pazienti che sono in affanno, con un’età media che si è abbassata nella seconda ondata della pandemia (dai 60 anni della prima fase ai 40 dell’attuale), che non sono malati ‘normali’, ma che occupano posti in ospedale per un tempo molto più lungo della media, difficile da definire a priori.
Da qui nasce l’esigenza di avere molti più letti a disposizione rispetto alla normalità, associata alla difficoltà di dimettere precocemente pazienti che hanno bisogno di cure intensive, con strategie terapeutiche che non sono diverse da quelle del marzo scorso.
Il progresso scientifico richiede tempo, che purtroppo non abbiamo avuto! Le sostanziali differenze tra la prima e la seconda ondata non possono essere fatte in termini terapeutici, ma in termini epidemiologici poiché ora possiamo studiare quanto ‘corre’ il virus, utilizzando i dati che abbiamo imparato a interpretare.
La differenza sostanziale tra prima e seconda ondata, all’interno degli ospedali, sta nel fatto che a marzo si è rallentata molto l’attività ordinaria non urgente, dando giusta priorità ai malati Covid: la conseguenza naturale è stata un ‘accumulo’ di tutto il lavoro sanitario ordinario e di molte operazioni chirurgiche che, terminata la prima ondata, si è ricominciato a riprendere.
Ad oggi, infatti ci ritroviamo a gestire l’attività routinaria che è diventata imponente, oltre ai malati Covid, che sono in costante aumento. Da aggiungere a queste problematiche, bisogna considerare la pur bassa, ma sempre presente, percentuale di medici e infermieri che il Covid lo contraggono, nonostante tutti i presidi in uso.
Analizzando nel dettaglio l’andamento delle ospedalizzazioni e delle quarantene, ricaviamo che: l’età media dei malati di SARS-CoV-2 si è notevolmente abbassata e che, nonostante tutte le misure messe in atto per contrastare la diffusione del virus, esso è presente e che basta davvero poco per innalzare la pressione sugli ospedali.
In virtù di tutto ciò, è necessario che ci si ricordi degli anestesisti e di tutte queste professioni sanitarie, che stanno scrivendo con la propria dedizione, il proprio sudore e alle volte il proprio sangue, la storia di questa pandemia! Ritengo che sia arrivato il momento per dare il giusto valore a una professione che si spende, senza riserve, per la salute dell’umanità!