Studio Milano-Wuhan su Covid e cuore con il supporto della Fondazione De Gasperis: un marcatore di danno cardiaco, la troponina T, si associa a una maggiore mortalità quando aumenta anziché calare durante l’ospedalizzazione del malato di Covid-19, e quindi può essere usato per identificare i pazienti a maggior rischio
Milano, 18 dicembre 2020 – Dalla collaborazione del dottor Enrico Ammirati, cardiologo del Cardiocenter dell’ASST Grande Ospedale Metropolitano Niguarda, supportato dalla Fondazione De Gasperis, e i colleghi dell’ospedale Tongji di Wuhan in Cina, sono emersi nuovi dati sul ruolo del danno cardiaco come biomarcatore di rischio nei pazienti ricoverati per Covid-19.
La collaborazione con la dottoressa Chenze Li e con il professor Dao Wen Wang, conosciuti nell’ottobre 2019 a Wuhan nel corso di un congresso internazionale ha portato alla pubblicazione sul Journal of Molecular and Cellular Cardiology di un articolo scientifico sul ruolo della troponina T. Nello studio si è osservato che questo marcatore di danno cardiaco si associa ad un’aumentata mortalità qualora i suoi livelli circolanti nel sangue aumentino dopo 3 giorni dall’ospedalizzazione anziché decrescere, in particolare nei pazienti con condizioni più gravi.
Su un campione di 2068 pazienti ricoverati all’ospedale Tongji di Wuhan nel febbraio-marzo 2020 di un’età media di 63 anni, costituito da circa la metà da donne, il 23% dei pazienti erano stati ricoverati in gravi condizioni cliniche, infatti avevano necessità di cure in terapia intensiva. All’ingresso, di questi il 30% aveva evidenza di un’elevazione della troponina T.
La troponina T è un biomarcatore di danno cardiaco usato in particolare per identificare i pazienti con infarto miocardico acuto, ma che si è rilevato un potente marcatore di prognosi nei pazienti ricoverati per Covid-19. Infatti, il 77% dei pazienti che non aveva avuto necessità di terapia intensiva durante il ricovero, all’ingresso avevano un’elevazione della troponina T solo nel 2%. A rimarcare il forte potere prognostico della troponina T si è osservato che nei pazienti critici, che purtroppo moriva durante il ricovero rispetto a chi sopravviveva, si è osservato che chi moriva aveva un’elevazione della troponina T nel 45% dei casi mentre in chi sopravviveva nel 21% dei casi, altro dato altamente significativo.
Questo marcatore di danno cardiaco si è visto che entro 3 giorni dall’avvio delle cure nei pazienti che venivano ricoverati in terapia intensiva era aumentato nel 68% dei pazienti che sarebbero poi morti e nel 49% di quelli che sarebbero sopravvissuti. Il vero spartiacque però era costituito da dopo i primi 3 giorni di ricovero, dove si osservava che in chi sarebbe morto la troponina era aumentata ancora nel 69% dei pazienti contro il dato in netta discesa al 30% di chi sarebbe sopravvissuto.
Quantitativamente la mediana del valore di concentrazione nel sangue della troponina T era 117 pg/mL in chi moriva rispetto a 13 pg/mL in chi sopravviveva tra la quarta e la settima giornata di ricovero in terapia intensiva. Interessante notare che i pazienti che non sono mai entrati in terapia intensiva perché in discrete condizioni cliniche, nonostante la presenza di una polmonite Covid-19, anche durante il ricovero mantenevano in genere valori bassi, con una mediana di valore di concentrazione massimo registrato tra 1 e 3 giorni dal ricovero pari a 6 pg/mL.
Altri dati emersi da questo studio sono stati che la troponina correlava con un importante marcatore di infiammazione come l’interleuchina 6, target del farmaco tocilizumab, spesso usato in questi pazienti nella prima fase epidemica del SARS-CoV-2. Sulla base dello studio dell’andamento di marcatori di danno cardiaco durante il ricovero e quelli dell’attivazione del sistema immunitario/infiammatorio si ipotizza che il danno cardiaco che porti al rilascio della troponina T sia legato a una cosiddetta cardiotossicità non specifica mediata dagli alti livelli circolanti di questi fattori dell’infiammazione chiamati citochine.
Altro dato di rilievo è stato osservare come l’elevazione della troponina T nei pazienti ricoverati in terapia intensiva si sia associato a un maggior rischio di aritmie e di arresti cardiaci durante il ricovero.
“E’ importante sostenere questi studi e farlo in questo momento – commenta Benito Benedini, presidente della fondazione De Gasperis che sostiene il Cardiocenter di Niguarda – cioè mentre l’Europa si prepara alla vaccinazione di massa ma il ‘nemico’ è ancora in gran parte sconosciuto e non si deve ancora considerare vinta la guerra al Covid-19”.
Spiega il dott. Ammirati che: “Questi dati sono in linea con le prime pubblicazioni apparse sulla rivista JAMA Cardiology a marzo 2020, ma forniscono degli ulteriori dati, di rilevanza della troponina durante tutto il ricovero dei pazienti con Covid-19. In particolare, consente di identificare quei pazienti che verosimilmente non stanno rispondendo alle cure come dovrebbero, perché la troponina T rimane alta”.
Quindi questa è la principale novità di questo lavoro. Inoltre, il dato è rafforzato dal fatto che sia stato dimostrato in un così ampio campione di pazienti. Va sottolineato che dall’inizio dei sintomi da Covid-19, che spesso era la febbre, e l’ospedalizzazione erano trascorse circa 2 settimane nella maggior parte dei pazienti studiati.
Pertanto, ricorda il dott. Ammirati, che “la troponina T non è un test utile da eseguire subito dopo un contatto con un portatore o un paziente infetto con SARS-CoV-2, il virus che causa la malattia Covid-19, ma ha senso eseguirlo nei pazienti che sviluppano la polmonite. Potrebbe ad esempio costituire un fattore che può determinare se decidere di ricoverare un paziente oppure no, oltre ad altri noti fattori come i livelli di ossigenazione del sangue, l’età avanzata, il sesso maschile o la presenza di multiple copatologie”.
Va ricordato che la validità del marcatore è stata confermata anche correggendo altre variabili di rischio, per cui il suo potere di identificare i pazienti a maggior rischio è da ritenere addizionale rispetto agli altri noti fattori di rischio.