Covid-19, stress prolungato amplifica disturbi alimentari. L’emergenza provoca indebolimento dell’offerta di cure

Roma, 5 maggio 2020 – Mentre più della metà degli italiani in tempo di Coronavirus si diletta tra i fornelli e sperimenta pizze e piatti della tradizione italiana c’è una fetta della popolazione che di questi tempi vive con maggiore sofferenza il rapporto con il cibo e con il proprio corpo. E la tavola e lo stare in famiglia da momento di convivialità si trasformano in un incubo in cui ci si sente sorvegliati speciali h24. Stiamo parlando delle persone che soffrono dei disturbi dell’alimentazione.

Per capire meglio l’entità del problema, di cosa vorrà dire anche per gli operatori tornare a lavorare nella fase 2 dell’emergenza e quante risorse dovrebbero essere stanziate per questo tipo di patologia, la ‘cenerentola’ del SSN, l’agenzia di stampa Dire ha intervistato il prof. Umberto Nizzoli, Presidente della Società Italiana per lo Studio dei Disturbi del Comportamento Alimentare (SISDCA).

Le persone affette da disturbi dell’alimentazione hanno un più alto rischio di peggioramento o ricadute durante questo periodo di emergenza?

“Certamente sì poiché quello che stiamo vivendo è uno stato di stress prolungato e questo spiega l’incertezza rispetto al virus e ai suoi sviluppi e la possibilità di intercettarlo e contrastarlo. Si vive una situazione simile a un trauma che lascia esiti anche nei processi neurobiologici che possono essere anche simili a quelli di un grande trauma a cui le persone reagiscono in modo differente. Per questo potremo osservare che alcune persone possono essere più vulnerabili e altre meno.

Questo è l’esito alla base dei tanti enigmi del funzionamento dell’essere umano. Partiamo dalla certezza però che uno stress prolungato porta ad una serie di conseguenze psiconeurobiologiche che per alcuni, sulla base di esperienze precedenti, diventa un’opportunità per divenire più autocontrollati e più sicuri di sé.

Rispetto alla popolazione di cui stiamo parlando avremmo allora un esito multiplo. Avremo perciò un gruppo di persone con patologia ridotta che troveranno il modo per ridimensionare la sintomatologia e miglioreranno o addirittura guariranno, altri invece registreranno un aggravamento complessivo del quadro clinico.

Insomma se avessimo la possibilità di osservare 100 persone con disturbi dell’alimentazione sicuramente potremmo constatare che nel breve e medio periodo 6 o 7 persone come stima approssimata troveranno le ragioni per ridurre l’intensità dei sintomi e alcuni addirittura per guarire. Dall’altra parte ci sarà un 30-40% orientativamente che potrebbero peggiorare.

Complessivamente vi è un sostanziale aggravamento del quadro personale. E poi va anche considerato che uno stress prolungato può essere il fattore per dare vita ex novo ad un disturbo dell’alimentazione. Dunque il fenomeno disturbi dell’alimentazione e del peso in questo periodo di pandemia dovuto all’isolamento può globalmente aumentare.

Bisognerebbe però fare il confronto tra questo gruppo di popolazione e altri gruppi di popolazione affetti da disturbi dell’area depressiva che allo stesso modo avrebbero delle ricadute maggiori in questo momento storico e potremmo allora constatare se i pazienti con disturbi alimentazioni si aggravano di più degli altri in queste condizioni di isolamento forzato. Sono condizioni che generalmente comportano un danno alla salute psicofisica”.

La limitata possibilità di allenarsi ma anche la prolungata vicinanza con i familiari per molte ore al giorno in casa possono essere un problema in più per queste persone?

“È una condizione di esposizione pesantissima. I disturbi dell’alimentazione sono vari. La precarietà, il disgusto e la vergogna sono sentimenti così diffusi che una pressione e una osservazione continua li amplifica. Si pensi a chi soffre di bulimia. Di solito è una persona che si è costruita delle tattiche che le consentono di uscire ma anche di eliminare o vomitare in modo protetto, discreto.

Questa convivenza 24h su 24 con il gruppo familiare può destabilizzare le abitudini creandogli grossa sofferenza. O se pensiamo anche a coloro che sono abituate a vivere con delle fobie sul cibo e/o su certi alimenti, se è selettivo restrittivo: condividere la tavola sempre lo porta a stress e frustrazione aggiuntive. Per altri condividere a tavola può essere un rito piacevole, non lo è per le persone affette da disturbi dell’alimentazione che all’opposto degli altri vivono lo sguardo dei familiari come persecutorio. Così come i processi di stigmatizzazione interna sono destinati a crescere.

C’è grossa sofferenza insomma. Una serie di mie pazienti bulimiche o con condotte di binge eating che vivono da sole hanno trovato il modo di compensare la patologia e la loro vita relazionale o professionale; ora essere bloccate in casa e non poter uscire astrarsi da questa condizione di prigionia è una condizione di sofferenza inimmaginabile. Anche le attività sportive mirate ad essere più resilienti per queste persone con condotte restrittive, di area anoressica soprattutto, che arrivano a dedicare tra palestra e sauna tre o quattro ore al giorno venendo a mancare l’opportunità generano maggiore rabbia e frustrazione in loro. Si potrebbe dire, era una condotta eccessiva ed ora viene regolata; ma la regolazione per imposizione suscita rabbia e incrementa il desiderio di evadere”.

Come è stato possibile mantenere in essere per persone che sono in analisi le sedute in questo periodo o anche i ricoveri. E poi, anche pensando alla fase 2 che imporrà appuntamenti più diluiti, come ci si dovrà organizzare?

“Quello che sta succedendo è un’esplosione di attività online. Molto bene. Ma abbiamo enormi problemi di varia natura tra cui quello che non tutti i nostri pazienti hanno il pc per potersi collegare, la connessione non è sempre buona. Immaginiamo la condizione che può vivere ad esempio un paziente anoressico che con il proprio terapeuta parla del rapporto con il cibo, la cucina e il proprio corpo e non ha riservatezza di farlo perché non ha lo spazio e dialoga con la paura poi che i propri familiari possano ascoltarlo stando tutti a casa.

La distanza inoltre è un modo nuovo di concepire il setting, porta a un impoverimento della semeiotica; la capacità di cogliere micro segni del funzionamento e dello stato della persona sfumano; eppure sono importanti per una corretta diagnosi. I legami poi si nutrono anche di affettività; sotto questo profilo la clinica online è una semplificazione. Inoltre va ripensata allora anche la formazione degli operatori. L’effetto della distanza riduce la qualità del lavoro e il supporto che si può offrire al paziente.

Poi l’altro problema sono i ricoveri all’interno delle comunità vere e proprie strutture residenziali mediche e psichiatriche, che in questo periodo di emergenza Covid hanno visto gli accessi sospesi e rinviati a non si sa quando; costoro possono perdersi. Mentre chi era già ospite deve vivere in una condizione non facile.

Insomma molti piani assistenziali già definiti saltano o si pregiudicano. Si parla certamente di una popolazione limitata ma si era pensato e deciso un progetto assistenziale di integrare quel paziente in una comunità e questo non è accaduto a causa dell’emergenza originando un senso di abbandono nel paziente.

Il risultato è di avere una offerta clinica molto ridotta anche se non si è potuto fare in maniera diversa. Si pensi alla solitudine del terapeuta; le linee guida dicono che il trattamento va condotto da una equipe multidisciplinare, ma quanto la pesantezza della situazione, il distanziamento, determinano in termini di perdita della pratica del lavoro di equipe? La società scientifica Sisdca, una delle più antiche al mondo e che presiedo, ha tra i suoi compiti principali quello della formazione così come l’accompagnamento degli operatori attraverso di loro, degli assistiti e delle loro famiglie ancora di più oggi per cercare di fronteggiare questa situazione.

Avverto che tra quello che ci sarebbe bisogno di fare e ciò che facciamo c’è uno scarto. Ci sarebbe bisogno di chiedere con più forza al Governo maggiore sostegno e formazione degli operatori perché questa emergenza provoca un indebolimento dell’offerta di cure, il burnout degli operatori e conseguente peggioramento della condizione dei pazienti.

Avremmo bisogno che il Governo ci desse una mano per finanziare anche la formazione di questi operatori per lavorare a distanza. La formazione ad oggi passa spesso davvero attraverso il volontariato puro della nostra associazione. Varrebbe la pena che le società scientifiche venissero sostenute in questo senso. Servono operatori aggiornati per fronteggiare il peggioramento dello stato salute mentale della popolazione che si registrerà alla fine di questa emergenza e che si sta già cominciando a registrare. Se si ha chiaro il fenomeno forse si ha la possibilità di fronteggiarlo. I disturbi dell’alimentazione hanno una diffusione molto ampia, tra le patologie mentali sono le più diffuse; tuttavia ricevono finanziamenti, un’attenzione nel SSN in termini di risorse, numero del personale e carriere molto inferiore a quello che servirebbe.

I disturbi dell’alimentazione sono in definitiva la cenerentola del SSN questo al di là dell’epidemia e si registra un ritardo della politica, del SSN e delle aziende sanitarie a prendere atto della diffusione del fenomeno e mettere in campo tutte le forze necessarie”.

Salva come PDF
Le informazioni presenti nel sito devono servire a migliorare, e non a sostituire, il rapporto medico-paziente. In nessun caso sostituiscono la consulenza medica specialistica. Ricordiamo a tutti i pazienti visitatori che in caso di disturbi e/o malattie è sempre necessario rivolgersi al proprio medico di base o allo specialista.

Potrebbe anche interessarti...