“Molti paesi africani sono più preparati alla gestione delle epidemie avendo dovuto gestirne molte, anche estremamente gravi, e sono maggiormente abituati ad un approccio comunitario della medicina. A metà marzo ero in Zambia per una formazione, qui da noi eravamo nel pieno del picco, lì non c’era ancora un caso eppure avevano già predisposto controlli e sanificazioni, in aeroporto, in taxi, in albergo”
Roma, 10 luglio 2020 – “Se la salute è un bene comune, non può dipendere dalle risorse individuali, non può essere considerata un privilegio, come accade in paesi come gli Stati Uniti d’America, o un diritto acquisito e dato per scontato ma sempre più fragile, come abbiamo constatato in questi mesi anche in Italia, né un servizio di fatto spesso inaccessibile, come in moltissimi paesi in via di sviluppo, ma come un diritto per tutte e tutti da conquistare e difendere e che richiede politiche e investimenti pubblici e una efficace cooperazione internazionale”: un messaggio chiaro e argomentato quello lanciato qualche settimana fa da Chiara Montaldo, Claudia Truppa e Valentina Mangano su Scienza&Pace Magazine, rivista online a cura del Centro Interdisciplinare Scienze per la Pace dell’Università di Pisa.
Abbiamo raggiunto Chiara Montaldo, infettivologa presso l’Istituto Lazzaro Spallanzani, che collabora da molti anni con Medici Senza Frontiere.
Come è cambiato il vostro lavoro allo Spallanzani da quando sono arrivati i due pazienti cinesi?
All’inizio non avevamo contezza di quello che stava accadendo e non potevamo immaginare che il numero dei contagi sarebbe precipitato in quel modo: fra quello che avevano i due pazienti cinesi e quello che è accaduto poco dopo c’è stata talmente tanta differenza che sembravano due malattie differenti. Quando le colleghe hanno isolato il virus è stato importante perché è stato il primo passo per capire questo virus per noi nuovo e per orientare lo sforzo clinico ad una migliore gestione dei pazienti.
Come spiega la grande differenza fra quanto accaduto in alcune zone del Nord Italia e il resto del paese?
È una questione per lo più irrisolta. Non ci sono evidenze scientifiche sufficienti sul ruolo dell’inquinamento o del clima. Certamente ha pesato l’organizzazione sanitaria regionale e si è reso evidente il ruolo fondamentale di quella che in cooperazione chiamiamo “medicina di comunità”. In regioni come la Lombardia dove questa è stata pesantemente trascurata si son visti i risultati.
Su cosa è centrata la sua attuale attività di ricerca?
Il mio studio è rivolto ai farmaci in sperimentazione in questo momento. Non abbiamo ancora farmaci risolutivi. Un vaccino efficace potrebbe essere il cardine della gestione dell’infezione ma ci vogliono almeno 12/18 mesi per produrre, sperimentare e approvare un vaccino.
Concorda con chi dice che il virus si è indebolito?
Non è possibile dirlo, e continuare a parlare senza avere evidenze è un grande problema. Dall’inizio di questa epidemia c’è stata una cattiva gestione della comunicazione, che ha generato confusione nell’opinione pubblica. Non possiamo fare previsioni basandoci su conoscenze che ancora non abbiamo.
Dalla sua esperienza con Medici Senza Frontiere che idea si è fatta di quel che sta accadendo in Africa?
Non c’è dubbio che l’età, fattore prognostico determinante del Covid-19, in Africa abbia giocato e giochi un ruolo importante. Le fasce di età avanzata sono a maggior rischio di evoluzione sfavorevole del Covid-19, e queste fasce sono nettamente meno rappresentate nei paesi africani rispetto a quelli europei. Dall’altra parte molti paesi africani sono più preparati alla gestione delle epidemie avendo dovuto gestirne molte, anche estremamente gravi, e sono maggiormente abituati ad un approccio comunitario della medicina. A metà marzo ero in Zambia per una formazione, qui da noi eravamo nel pieno del picco, lì non c’era ancora un caso eppure avevano già predisposto controlli e sanificazioni, in aeroporto, in taxi, in albergo.
Adesso come procede la situazione?
I danni collaterali del Covid-19 in Africa rischiano di essere più impattanti del Covid stesso, perché con l’arrivo dell’epidemia sono stati ridotti i servizi per altre malattie come Hiv, malaria, Tbc. Le Ong svolgono un ruolo enorme nel cercare di fare il possibile su questo fronte, supportando i servizi di salute primaria già fragili in tanti paesi e ulteriormente indeboliti dalla pandemia. Precedenti esperienze, tra cui le recenti epidemie di Ebola, hanno dimostrato che un approccio verticale su una sola malattia, trascurando le altre, non è quello vincente.
Pensa che questa pandemia sia servita a far cadere pregiudizi e cattive reputazioni sulle Ong?
Sicuramente in questa vicenda le Ong sono tornate in prima linea in Europa: in Italia Medici senza Frontiere (MSF) e Emergency hanno dato un contributo importante supportando il sistema sanitario soprattutto in termini di controllo e prevenzione delle infezioni, aspetto determinante della lotta all’epidemia.
(fonte: Network Italiano Salute Globale)