Prof. Maurizio Sanguinetti, Direttore del Dipartimento Scienze di laboratorio e infettivologiche del Policlinico Universitario A. Gemelli IRCCS e Ordinario di microbiologia, Università Cattolica del Sacro Cuore: “I test sierologici, opportunamente validati, saranno preziosi a fini epidemiologici, consentiranno cioè di capire quale parte della popolazione ha sviluppato un’immunità contro il coronavirus”
Roma, 24 aprile 2020 – Per ripartire e affacciarsi con prudenza alla normalità, passando per la cosiddetta ‘fase 2’, gli italiani dovranno probabilmente conseguire la cosiddetta ‘patente di immunità’. Per ottenerla, bisognerà dimostrare di essere stati contagiati dal coronavirus e di aver superato l’infezione. E a dimostrarlo saranno gli anticorpi.
“Le IgA, gli anticorpi cosiddetti ‘secretori’ – spiega il prof. Maurizio Sanguinetti, Direttore del Dipartimento Scienze di laboratorio e infettivologiche del Policlinico Universitario A. Gemelli IRCCS e Ordinario di microbiologia, Università Cattolica del Sacro Cuore – che si trovano tipicamente sulle mucose, come quelle respiratorie; le IgA sono molto importanti perché sono le più efficaci nel difenderci da future infezioni respiratorie. Nel sangue sono inoltre dosabili le IgM, che cominciano ad aumentare una settimana circa dopo il contagio e le IgG, la vera cicatrice immunologica, la prova che il virus è stato sconfitto dalle nostre difese immunitarie. Sono questi i cosiddetti test anticorpali o test sierologici di cui tanto si parla in questi giorni. E spesso a sproposito. Perché questi test non servono a fare diagnosi di infezione, a stabilire cioè se un paziente è ‘positivo’. Per quello l’unico test a disposizione è ancora il famoso ‘tampone’, il test molecolare. I test sierologici invece servono solo a stabilire se una persona ha contratto e superato l’infezione da SARS CoV-2. Cioè se ha sviluppato l’immunità contro il virus. Che è quanto di più prezioso abbiamo a disposizione, almeno fin quando non sarà disponibile il tanto agognato vaccino”.
Test sierologici (anticorpali): utili per misurare l’immunità ‘di gregge’, ma non per far diagnosi d’infezione nel singolo paziente
Varie le tipologie di test sierologici proposti finora. Ci sono quelli ‘rapidi’ o ‘qualitativi’ (che si basano sull’immunocromatografia), che danno una risposta in un quarto d’ora ma sono decisamente poco precisi; più affidabili invece sono quelli ‘quantitativi’ (al momento si basano sulla chemiluminescenza e sull’Elisa), più complessi e costosi ma anche più precisi. Va detto subito che si tratta di test sperimentali, con un livello di affidabilità a volte molto modesto.
Ma le Regioni fremono e sono almeno 36 i laboratori pubblici dislocati presso 11 regioni che si stanno organizzando per effettuarli, procedendo in autonomia. “Ancora troppo pochi questi laboratori – afferma il professor Sanguinetti – per una popolazione di 60 milioni di abitanti”.
Non è scontato poi che i vari test in circolazione siano tutti validi. Le critiche si appuntano soprattutto su quelli ‘rapidi’, venduti anche online, ma dall’affidabilità tutt’altro che scontata.
A cosa servono i test sierologici
“I test – spiega il prof. Sanguinetti – sono tutti validi a seconda di cosa vogliamo ‘chiediamo’ all’esame. Se voglio fare diagnosi di Covid sulla base di un test sierologico, mi trovo già con un problema di fondo. Con questi test, perderò qualsiasi paziente all’inizio della malattia, perché in genere occorrono almeno 7 giorni per registrare un primo movimento anticorpale. Quindi se il test è positivo, ho fatto diagnosi; ma se è negativo, c’è il rischio che si tratti di un falso negativo. Al contrario, se quello che intendo indagare è se un gruppo di persone è stato a contatto col virus e se possono aver sviluppato l’immunità, allora i test sierologici sono quelli d’elezione”.
I test sierologici, opportunamente validati, saranno dunque preziosi a fini epidemiologici, consentiranno cioè di capire quale parte della popolazione ha sviluppato un’immunità contro il coronavirus. Sono invece del tutto inutili per far diagnosi di infezione in atto, perché per loro stessa natura sono ‘ciechi’ nella prima settimana dall’infezione, quella in cui il paziente non ha ancora cominciato a fabbricare anticorpi, ma può diffondere attivamente il virus tra le persone che lo circondano.
Lo ha ribadito anche il Ministero della Salute in una circolare del 3 aprile: i test sierologici sono “molto importanti nella ricerca e nella valutazione epidemiologica della circolazione virale. Diversamente, come attualmente anche l’OMS raccomanda, per il loro uso nell’attività diagnostica d’infezione in atto da SARS-CoV-2, necessitano di ulteriori evidenze sulle loro performance e utilità operativa. In particolare, i test rapidi basati sull’identificazione di anticorpi IgM, IgG, [IgA] specifici per la diagnosi di infezione da SARS-CoV-2, secondo il parere espresso dal CTS, non possono, allo stato attuale dell’evoluzione tecnologica, sostituire il test molecolare basato sull’identificazione di RNA virale dai tamponi nasofaringei secondo i protocolli indicati dall’OMS”.
Secondo gli esperti, tutti i Paesi dovrebbero avviare adesso delle ‘sero-surveys’, delle vaste indagini epidemiologiche basate su questi test per rispondere a due domande cruciali: quante sono nell’ambito della popolazione le persone con infezioni inapparenti e quale livello di immunità di popolazione (‘di gregge’) è stato raggiunto. Le risposte a queste domande avranno ricadute mondiali.
Ma l’immunità acquisita ‘naturalmente’ (cioè per essere venuti a contatto col virus) è duratura?
Un’altra delicata domanda, ancora purtroppo senza risposta, è quale sia la durata della protezione conferita dallo scudo anticorpale, fabbricato dal nostro organismo. “Si tratta di una questione ancora aperta – commenta il prof. Sanguinetti – È necessario intanto scoprire se una determinata persona sia venuta a contatto con il virus. Per stabilirlo devo individuare una parte del virus che sia immunogenica (cioè che induca la produzione di anticorpi altamente specifici per il SARS CoV-2, e non per altri coronavirus ad esempio); per costruire il test anticorpale, posso scegliere vari antigeni, come ad esempio la ‘nucleoproteina’, che è un antigene strutturale; ma gli anticorpi che vengono prodotti in risposta a questa proteina sono probabilmente importanti dal punto di vista diagnostico, ma non da quello di immunizzazione. Questo perché gli anticorpi diretti contro questa proteina non immunizzano (cioè non proteggono da una nuova infezione) l’individuo. Al contrario, gli anticorpi contro la proteina spike sono immunizzanti. Ed esistono dei test che permettono di misurare gli anticorpi anti-spike. Scegliendo questi ultimi, posso associare al lato diagnostico, anche quello prognostico. In questo momento tuttavia non siamo in grado di dire se l’immunità acquisita per esposizione al virus sia duratura e purtroppo nemmeno se gli anticorpi che si sviluppano in un individuo siano protettivi o meno nei confronti di una reinfezione”.
L’immunità inoltre potrebbe non essere infinita; alcuni esperti ipotizzano che potrebbe durare 1 o 2 anni al massimo, dopodiché si diventerebbe di nuovo suscettibili all’infezione. L’unico modo per scoprirlo sarà quello di ripetere i test sierologici a intervalli prestabiliti.
La ‘patente di immunità’ insomma potrebbe dover essere rinnovata ogni tot mesi per stabilire se ancora valida. E forse consentirà, quando tutto questo sarà solo un incubo lontano, di ottenere un ‘passaporto’ anche per tornare a viaggiare all’estero.